«Quale parabola preferisci?

Svolgimento.

Io, la parabola che preferisco è la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. Dio separerà le capre dai pastori, una a destra e una a sinistra. Al centro quelli che andranno in purgatorio, saranno più di mille migliardi! Più dei cinesi! E Dio avrà tre porte: una grandissima, che è l’inferno; una media, che è il purgatorio; e una strettissima, che è il paradiso. Poi Dio dirà: “Fate silenzio tutti quanti!”. E poi li dividerà. A uno qua e a un altro là. Qualcuno che vuole fare il furbo vuole mettersi di qua, ma Dio lo vede e gli dice: “Uè, addò vai!”. Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà, Corzano si farà in mille pezzi, i buoni rideranno e i cattivi piangeranno. Quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle e io, speriamo che me la cavo».

(L’ultimo tema letto dal protagonista, sul treno diretto a settentrione – D’Orta M., “Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani”, Arnoldo Mondadori Editore, 1990)

 

Alla scuola del Maestro c’é sempre da imparare. Tra i banchi di scuola sparsi qua e lá in mezzo alle povere case dei pescatori -sullo sfondo di una via maestra che punta al Mediterraneo, dove il lago di Tiberiade fa da lavagna e le fronde degli ulivi sembrano gessetti colorati su un cielo terso che apre la porta ad un nuovo giorno- proprio lì, di buon mattino, il Maestro decise di tenere una proverbiale lezione di algebra. La passione per le quantità e soprattutto per certe moltiplicazioni non osò mai tenerla minimamente nascosta; approfittò, dunque, di quel clima languido e lindo di certi settembre che si lasciano alle spalle l’afa e la polvere per (ri)cominciare. Come l’inizio di un nuovo anno scolastico che piomba -puntuale- a settembre, quel mattino parve il primo giorno di scuola; un vasto programma da svolgere, matematica già alla prima ora e un problema da risolvere; un uomo, dagli ultimi banchi, alzò la mano e disse: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità» (cfr. Lc 12, 13). Un problema serio, altro-che-chiacchiere!

Fu quello il momento in cui il Maestro decise di non impicciarsi in faide familiari, astenendosi dall’apologia del reato, sgusciando via il più possibile dalle logiche umane -capovolgendole semmai- per esplicare la formula che gli fu più congeniale, la regola dei segni (e dei prodigi) che lo accompagnò fin sulla Croce: “+*- = -“ (più per meno é uguale a meno) e “-*- = +” (meno per meno é uguale a più). Passando dalla teoria alla messa in pratica della formula, fu in grado di dimostrarla sapientemente con la testimonianza della Sua vita: venendo al mondo, da ricco che era, si fece povero (cfr. 2 Cor 8, 9); poi, per rendere più chiaro il concetto, riportò un esempio, una parabola: un uomo, affannandosi per un’intera vita, aveva accumulato un abbondante raccolto -vanitá delle vanità!- direbbe il Qoèlet!. Riposare, mangiare, bere, rimanere nella gioia erano le azioni che aveva programmato e che avrebbero accompagnato il resto dei suoi giorni. Azioni buone -eucaristiche- se non fossero state esasperate da un aggettivo: mio. I miei beni, i miei raccolti, i miei magazzini, la mia anima. “Ma cosa é mio, cosa lo é veramente? Quali cose mi appartengono?” Del Signore é la terra e quanto contiene (cfr. Sal 23), Egli fa vivere e morire (cfr. 1 Sam 2, 6), non ricordarlo é presagio di stoltezza. I beni sono i doni che Dio Padre ci ha consegnato, non li possediamo e non devono possederci, perché da equazione bilanciata risulta che il mio più (+) é netta causa del meno (-) del mio fratello, mentre invece il mio meno (-) moltiplicato per il meno (-) del mio fratello dá come risultato un più (+), un’abbondanza della quale tutti, fraternamente, possiamo beneficiare. Infine, la regola dei segni enuncia che solo il più (+) mio moltiplicato per il piú (+) dell’altro -nella caritá- dà il “di piú” elevato a potenza che é Dio!, dal quale, ereditandone immagine e somiglianza, ereditiamo il dono della vita e la vita che si fa dono. “Non c’é amore più grande che dare la vita per i propri amici” disse. Il meno che diventa più non é che la ricchezza di chi ha consapevolezza della propria povertá, e non può non riporre il suo limite creaturale in Colui che l’ha creato, desiderando ardentemente di imitarLo nell’Amore e anelando costantemente alla Sua Grazia. Lo stesso amore di cui San Paolo, tracciandone le coordinate, compose un inno: é benigno, paziente, non é invidioso, non si vanta e non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità (cfr. 1 Cor 13, 4-7). Il meno non é solo allusione ad una povertá materiale, ma comprende tutte quelle forme di povertà che hanno alla radice il mancato rispetto della dignità dell’uomo e che distolgono lo sguardo e il cuore dal vero guadagno: Cristo Gesù. La vita vibra di cose e gesti donati –meno per meno fa più– ed é bello apprenderlo sui banchi di scuola assieme al Maestro che, durante la ri-creazione, non smette di ricordare che la merenda é più gustosa se é condivisa e ha il sapore del pane spezzato. Pane il cui lievito permette di innalzare lo sguardo alle cose di lassù e di accumulare tesori non nelle cose che passano ma nelle cose che restano dentro lo spazio di un minimo comune multiplo. Le uniche cose facili da portare sempre con sé perché hanno residenza e consistenza nel cuore, quelle che tignola e ruggine non potranno deturpare, e che troveranno pienezza alle soglie della Vita vera, quella eterna. 

 

In quanto a me, non sono mai stata un gran genio in matematica e dunque… io speriamo che me la cavo!

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