mano fango

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Nel rito ambrosiano, la IV domenica è popolarmente considerata quella del “cieco nato” e, conseguentemente, l’intera liturgia si muove nel senso della simbologia del contrasto tra luce e tenebra e della presenza e dell’azione divina come splendore luminoso. 
Cristo, dopo aver risposto ad un quesito sull’origine del male che affligge il cieco nato, si proclama, infatti, come luce del mondo e compie la guarigione del cieco nato, uno dei miracoli più famosi del Vangelo di Giovanni, ma anche tra quelli più carichi di strascichi per le successive sorti del Maestro. Sappiamo infatti che è, in particolare, a seguito di questo episodio, che i Giudei mettono in moto quella che, oggi, chiameremmo la “macchina del fango” per incastrare Gesù e, infine, condannarlo all’ignominiosa morte sulla Croce che ha sofferto per la nostra salvezza. Questa guarigione diventa significativa, rinomata: non si trattava di un falso invalido: verosimilmente, la sua faccia era nota e – probabilmente – i suoi genitori erano assidui frequentatori della sinagoga. Questo dettaglio potrebbe spiegare il comportamento intimorito che segue alla guarigione del figlio: invece che manifestare la loro gioia, paiono quasi abbandonarlo a se stesso del tutto, quasi che, se prima la sua colpa era la malattia che faceva gravare sull’intera famiglia lo stigma del peccato, ora pareva essere sospetta persino la sua guarigione, lungi dall’essere vista come una liberante purificazione.   
Quest’episodio è in realtà decisamente complesso, perché si manifesta come un intreccio aggrovigliato di reminiscenze della teologia rabbinica del tempo e scontri istituzionali, all’interno di quel lembo di territorio romano così recalcitrante alle leggi imperiali e così orgogliosamente diverso dal resto dei territori conquistati. Gli apostoli, da un lato, manifestano un’interpretazione teologica del male fisico che, nonostante non sia più in uso nella Chiesa, è rimasta – quasi ancestrale retaggio, più o meno inconsapevole: “che ho fatto di male, per meritarmi questo?” è la domanda che affiora, prepotentemente alle labbra del malato. Questa domanda fa eco a quella dei discepoli; è l’incomprensione della malattia, specie quando non è legata ad uno stile di vita sconclusionato o ad una scelta oggettivamente rischiosa, ma è innata. La spiegazione teologica rabbinica non lasciava scampo: se non era possibile trovare una colpa nel malcapitato, poteva essere trovata in qualcuno dei familiari più prossimi.  Dall’altro, serpeggia quell’atmosfera di sospetto che tradisce il momento, nel corso della vita di Gesù, in cui questo miracolo avviene: è ormai un “sorvegliato speciale” e nulla di quanto fa o dice passa ormai inosservato; ogni dettaglio può rivelarsi prezioso per chi, nell’ombra, agisce complottando contro di Lui. 

Rispetto alla concezione della malattia, Gesù invita a cambiare la prospettiva. Qualcuno vorrebbe restringere il campo d’azione e riferire «né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9, 3) esclusivamente al caso specifico che era – in quel momento – il cieco incontrato da Gesù (o, eventualmente, i malati incontrati dal Signore, che sono diventati, per così dire, strumento privilegiato di manifestazione della misericordia di Dio). Io credo che sia possibile ampliare la portata di questo sguardo sulla malattia. Ancora oggi, il malato, non essendo un reietto a motivo del peccato di cui si potrebbe credere sia portatore, è bene che sia – a tutti gli effetti – ritenuto uno strumento per la manifestazione delle opere. Attenzione: non in automatico, però. Così come non è bene considerare la malattia una sorta di “maledizione sotto mentite spoglie”, il malato non è neppure – necessariamente – portatore di una specifica grazia. Piuttosto, però, ha la possibilità di manifestare una grazia particolare, nel momento in cui la malattia stessa è vissuta all’interno del rapporto con Dio e la persona si rivela docile alla Parola di Dio. 
Del resto, molte sono le guarigioni che possiamo trovare all’interno del Vangelo, ma non avvengono in modo indiscriminato, tanto è vero che a Nazaret, pur richiesto, non avvenne alcun miracolo, mentre pare quasi che il Signore si diverta a concederne proprio nei momenti e nei luoghi che diventano difficili da giustificare, agli occhi dei Giudei (nel tempio, in giorno di sabato). C’è di più: anche quando la guarigione, non basta a sanare la persona, in modo integrale: è quello che si evince dall’episodio dei dieci lebbrosi (Lc 17, 11-19), in cui la gratitudine si fa protagonista e via maestra della fede che porta non solo alla salute, ma alla salvezza.  

Fango, saliva, acqua. Dio è estremamente semplice. Non costosi, lunghi, dolorosi interventi effettuati tramite macchine di precisione, effettuati da esperti e competenti professionisti. Dio è il semplice per eccellenza. Eppure, accetta di avvalersi della propria creazione, ogni qualvolta interviene in soccorso della creatura. Pur potendo creare ogni cosa dal nulla, pur potendo fare a meno di tutto, perché a Lui non manca niente, sceglie liberamente di non fare mai a meno della mediazione umana. 

Mi viene in mente l’episodio di Naaman il Siro, che, al sentire la modalità con cui il profeta Eliseo lo avrebbe guarito dalla lebbra, invece di gioire perché la guarigione non sarebbe stata né una chimera, né qualcosa che richiedesse una sua faticosa e complicata partecipazione (gli viene detto unicamente di bagnarsi 7 volte nel fiume Giordano: una richiesta semplice e non impegnativa, insomma), protesta e si arrabbia: 

«Ecco, io pensavo: Certo, verrà fuori, si fermerà, invocherà il nome del Signore suo Dio, toccando con la mano la parte malata e sparirà la lebbra. Forse l’Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque di Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per essere guarito?» (2Re 5, 11-12). 

Naaman è fortunato: ha dei servi saggi, che gli fanno notare: «Se il profeta ti avesse ingiunto una cosa gravosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: bagnati e sarai guarito»: grazie a quest’attenzione, Naaman compie quanto gli era stato detto e la sua carta ridiventa “come la carne di un giovinetto” (2 Re 5, 14). 

Spesso, anche noi reagiamo come Naaman: siamo scandalizzati dalle modalità con cui Dio sceglie di esaudirci. Non ci basta avanzare richieste, vorremmo poter indicare anche le modalità di esaudimento, per filo e per segno.  

Si rivela, spesso, una strada impegnativa quella che ci conduce a scoprire che Dio risponde sempre, che Dio esaudisce sempre, anche se non “esattamente” nelle modalità che vorremmo noi. 

“Ti ho chiesto, Signore, di essere forte per eseguire progetti grandiosi: Tu mi 
hai reso debole per conservarmi nell’umiltà. 
 
Ti ho chiesto la salute per realizzare grandi imprese:  
Tu mi hai dato il dolore per comprenderla meglio. 
 
Ti ho chiesto la ricchezza per possedere tutto:  
Tu mi hai lasciato povero per non essere egoista.

Ti ho chiesto il potere perché gli uomini avessero bisogno di me:  
Tu mi hai dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro.

Ti ho chiesto l’amicizia per non vivere solo:  
Tu mi hai dato un cuore per amare tutti i fratelli.

Ti ho chiesto tutte le cose che avrebbero potuto rallegrare la mia vita:  
Tu mi hai dato la vita perché mi rallegrassi di tutte le cose.

Signore, non ho ricevuto quello che ho chiesto.  
Ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.

Le preghiere che mai feci furono esaudite.

Grazie, Signore: fra tutti gli uomini nessuno ha mai avuto più di quello che ho io!” 

Così Kirk Kilgour, campione sportivo americano costretto su una sedia a rotelle in seguito ad un incidente, ha percorso l’impegnativa strada verso la consapevolezza di essere figli amati da Dio, che, alle volte, si rivela in modo più chiaro, dopo aver attraversato ostacoli e difficoltà che ci hanno costretti a riordinare le nostre priorità.  


Rif. Letture festive ambrosiane, nella IV domenica di Quaresima, anno C

✠ VANGELO Gv 9, 1-38b 

In quel tempo. Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei, dunque, gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». 


Fonte immagine: Crossroadsinitiative

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