MarioBerruto

Con certi sport non è mai stato amore a prima vista: anche lo sport vive di un suo feeling iniziale, una specie di scintilla che accende il desiderio e allena l’uomo a ricercare il suo limite, il suo posto nel mondo. Dentro la trama di questi sport, però, di continuo cerco l’uomo nella sua nudità, mi gusta scoprire l’anima, la storia, quell’essere bambino che tiene legato l’uomo alle sue radici. L’uomo che piange, che ha freddo, che ha paura: «Per ogni individuo, lo sport è una possibile forma di miglioramento interiore» Parola di Pierre De Coubertin.
La pallavolo fa parte di questa rosa di sport: pur senza praticarla e amarla oltremodo, m’appassiona quel gesto imbevuto di dolcezza e di veemenza, di rammendo e di taglio, di ginocchia piegate e di braccia spalancate. Quando poi il colore delle maglie si colora d’azzurro – al tempo delle Olimpiadi e dei mondiali – anche la pallavolo val bene notti insonni e occhi fissi sullo schermo della tv. Mauro Berruto appartiene a questo mondo: fino a qualche giorno fa era il CT della Nazionale Italiana di Pallavolo. Un uomo che dall’oratorio di un quartiere popolare di Torino è salito fin sul terzo gradino del podio a Londra 2012: «134 volte ho sentito suonare l’inno di Mameli con il cuore che scoppiava di orgoglio e di rispetto per quella bandiera distesa davanti a me» – ha scritto nella sua lettera di dimissioni da CT dell’Italvolley maschile. Un “hombre vertical” dicono gli spagnoli: un uomo tutto d’un pezzo, capace di sostenere le sue opinioni, refrattario al mondo dei compromessi. Uno di quei mister per i quali allenare è qualcosa di più che applicare un semplice programma, dare delle direttive o mettere mano ad un fischietto. Allenare è conoscere i sentimenti degli atleti, i loro bisogni, i loro obiettivi. E’ in questa terra che germoglia la fiducia degli atleti e, in misura proporzionale, la responsabilità dell’allenatore.
Berruto l’ha vissuta così la sua avventura. Che ha voluto terminare a margine di un episodio occorso alla sua squadra: in occasione della Final Six di World League a Rio de Janeiro, quattro professionisti hanno tradito il codice interno della squadra. Lui li ha esclusi, c’è da crederci a malincuore: il sistema ha escluso Berruto. In un battibaleno l’uomo che era riuscito a portare in alto l’Italia del volley senza cedere alle logiche dei vizi e delle coccole, ha scoperto di non essere più gradito all’ambiente. Di non avere più la fiducia della Federazione. Da “hombre vertical” qual’è, è sceso dalla giostra: «Il dolore di rinunciare al mio ruolo di CT – continua nella lettera di dimissioni pubblicata nel suo sito internet – non è negoziabile rispetto alla difesa di valori che ritengo fondamentali quali il rispetto delle regole e della maglia azzurra. Valori che ritengo altresì fondamentali nella mia visione di sport». Punto e a capo. Ci sono dei valori che non sono necessari per vincere una medaglia: si può vincere anche dopo notti insonni e stravizi lautamente pagati. Sono gli stessi valori, però, che qualcuno ritiene indispensabili per crescere come uomo. Per diventare simboli di un nuovo umanesimo, non solo sportivo.
All’orizzonte era ormai prossimo il fascino della XXXI^ olimpiade di Rio de Janeiro, nell’estate del 2016: perché non far passare in sordina questo incidente interno di percorso? In fin dei conti – potrebbe dire qualcuno – “sono ragazzi”. Forse l’agguato dell’uomo di stile sta proprio in quell’essere ragazzi: la sfida non è quella di farli rimanere tali ma di spingerli a diventare uomini appieno. Per questa sfida, Berruto è persuaso che lo stile sia un tassello fondamentale, molto più che una questione di glamour intellettuale: un valore non negoziabile, per l’appunto. E’ sceso, senza imporre al mondo di cambiare. Senza accettare che un certo mondo cambiasse lui. Avercene di mister così.

(da Il Mattino di Padova, 2 agosto 2015)

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