Per chi morire
“Se una persona non è disposta a morire per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lei” (Ezra Pound)
Per cosa siamo disposti a morire? La prima lettura liturgica ambrosiana ci invita a questa riflessione, mentre ci presenta la vicenda di Antioco Epifane, una “radice perversa”, che i pii israeliti si trovano a fronteggiare (1Mac 1, 10-38) in un martirio di gigantesche proporzioni.
Forse, è difficile rispondere a questa domanda. Forse, non basta una guerra vicina per pensare seriamente. Come direbbe il dottor House: “Quasi morire non cambia niente, la morte cambia tutto”. Avvicinarsi non è la stessa cosa di esserci.
Solo immaginarlo, lascia sempre quel margine per cui possiamo ipotizzare, ma senza un solido fondamento. Perché pensare di affrontare la morte per le proprie idee, non richiede la stessa fortezza rispetto a fronteggiare davvero una situazione simile.
Vivere per
Che fare, allora? Una sorta di simulazione realistica?
C’è qualcosa di più reale e di più coinvolgente.
Per cosa siamo disposti a vivere? Cosa prendiamo sul serio? Su cosa in-formiamo la nostra vita, per cui non recediamo, anche quando intevengono delle difficoltà?
Come possiamo morire per un’idea, se non siamo disposti ad investire per essa, a vivere per essa, nel nostro quotidiano?
Come possiamo morire per un’idea, se non siamo disposti ad investire per essa, a vivere per essa, nel nostro quotidiano?
La testimonianza del martirio
Parlare di martirio sembra qualcosa di vintage, nel senso di “vecchio e fuori moda”. Fuori dal tempo e dal contesto; incompatibile con l’attualità. Uno di quei discorsi che generano, quando va meglio, un sorriso di circostanza. Ma, il più delle volte, sono avvertiti come “lettera morta”, incapace ormai di comunicare alcunché. Eppure, la sorniona liturgia estiva non ha mancato di fornirci degli spunti. Da Edith Stein (9 agosto) a san Bartolomeo (24), passando per San Lorenzo, possiamo chiaramente percepire come il martirio non sia circoscrivibile nel tempo, nello spazio o in un determinato ambiente culturale. La graticola, lo scuoiamento, l’internamento e il forno crematorio di Auschwitz; l’età apostolica, l’età imperiale o il Novecento. Camabia tutto, tranne l’essenziale.
Un’armatura potente
Sul martirio s’infrange la volontà di dominio, soffocata dalla tenacia di una resistenza gentile. Ma, pur mancando di violenza, non può mancare di fortezza e , quindi, dell’adeguata preparazione.
«Prendete dunque l’armatura di Dio […]: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» (Ef 6, 13 – 18)
Rileggerlo con attenzione, ci aiuta a comprendere che non si tratta solo di grande impegno, ma di poter contare sulla forza della Parola di Dio, che è quella che ha accompagnato ogni martire.
Forza e fortezza
Il martirio è – sempre – testimone di autenticità. Lungi dall’essere una sorta di “suicidio religioso”, è – piuttosto – un radicale amore per la verità. La forza cruenta della brutalità si scontra con la tenace fortezza dell’amore. È in forza di questa che, invece della distruzione, si sprigiona una nuova forza creativa. Perché “solo l’amore crea” (Maximilian Kolbe). Ecco perché, come notava Tertulliano, “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”.
Un apparente paradosso
Non si tratta di una sorta di “culto doloristico” o di una sorta di “contemplazione del mistero degli inizi” (come a volte possiamo essere portati a pensare, identificando il periodo dei martiri con la prima età apostolica o l’età imperiale dell’era cristiana). C’è sempre qualcosa di più.
Il martire dice che la violenza può non avere l’ultima parola. Che rispondere alla violenza con la violenza non è l’unica soluzione. E che quella morte, atroce sulle prime, non è senza senso, proprio per la fecondità che ne segue, in modo inevitabile e irrefrenabile. Sembra un paradosso, ma la Chiesa ha vissuto periodo di grande santità proprio sotto le persecuzioni e si è trovata in difficoltà, sotto molto aspetti, proprio nel momento in cui religione e potere, con Costantino, si sono intrecciati.
La fecondità di uno sguardo
È proprio in quel momento che è stato necessario ritrovare la fecondità che offriva lo sguardo. Allora si è guardato ad Antonio ed ai suoi compagni nel deserto. Si è pensato che ci potesse essere un “nuovo” martirio, in un volontario “annullamento di sé” nel deserto. Ma cosa si cercava, esattamente? Lo sguardo del martire. Quello sguardo che diceva, con assoluta consapevolezza, che non era la morte l’ospite atteso, ma l’abbraccio di Dio. Che quel morire era il nascondersi del seme nella nera terra1: necessario, per rivedere la luce. Quella luce che il Figlio dell’Uomo promise quando, dopo essere stato inchiodato alla croce, tornò ai suoi, garantendo:
«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20)
Rif. Letture festive ambrosiane, nella domenica precedente il martirio del Precursore
Fonte immagine: Pixabay
1 Cfr. Gv 12, 14: «In verià, vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto»