La liturgia prosegue, nella prima lettura, con la proposta di un brano tratto dalla Genesi, che continua il precedente e – stavolta – narra dell’uccisione di Abele, da parte di Caino e delle sue conseguenze.
I primi tre capitoli del primo libro della Bibbia hanno una forte componente allegorica e, lungi dal poter essere un libro storicamente valido nel senso stretto del termine, hanno invece un valore più ampio e più profondo, perché hanno l’ambizione di voler dire qualcosa sull’essenza stessa dell’essere umano e dell’essere umani.
Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise (Gen 4,8).
Uccidere è – prima di tutto – un sacrilegio e ne abbiamo la certezza proprio in questo passo. Caino è – innanzitutto – blasfemo e la sua colpa avviene soprattutto davanti a Dio e – solo in seconda battuta – nei confronti dell’uomo in generale e di suo fratello in particolare. Il motivo è presto detto. Alzare le mani conteneva già in sé il germe della sacralità. Era il primo gesto da compiere per imporre le mani e, in seguito, concedere una benedizione. L’imposizione delle mani – rimasta, nei nostri riti, e ormai in modo opzionale, nel Sacramento della Penitenza – è l’antenato della benedizione secondo l’uso cristiano. Prima che il segno della croce soppiantasse i gesti ebraici, la benedizione era caratterizzata dal porre le mani sulla fronte della persona che doveva riceverla.
Stavolta, per la prima volta nella storia dell’umanità, le mani si alzano, ma non per benedire. Un leit-motiv ripreso dalla fortunata serie, prima narrativa e poi televisiva, di Giovannino Guareschi, con il Cristo che, pazientemente, riprende un sanguigno ed irascibile don Camillo in cerca di vendetta, ammonendolo: «Le mani sono fatte per benedire!». Già questa è prima indicazione generale e sempre valida che ci aiuta a capire la natura del peccato, di ogni peccato, anche quando “non abbiamo mica ucciso nessuno”. Peccare è girare il senso autentico delle cose, è un utilizzo scorretto degli strumenti che Dio ci ha dato per il bene nostro e dell’umanità, per la felicità nostra e dell’umanità. Ad esempio, è un dono essere in grado di suscitare risate ed avere la battuta pronta; eppure, se questo dono è usato male, può diventare strumento di offesa e di umiliazione, utilizzato per far male agli altri, invece che sostenerli e sollevarli dalle angustie quotidiane.
È significativo che non ci siano dettagli ulteriori sul misfatto. Probabilmente, ci stupisce, essendo abituati ad analisi reiterate e (fin troppo) approfondite sulla dinamica di un omicidio. In giurisprudenza, si parla di “aggravante di crudeltà”. In realtà, non è così fondamentale. Non importa lo strumento: che si usi un bisturi, un coltello da cucina, una pistola o fucile a mitragliatore o qualunque altra diavoleria che l’uomo potrà inventare per uccidere, ciò che arma l’azione è un pensiero: l’illusione di poter eliminare con la forza il problema che ci sta davanti.
Caino ha scelto. Caino ha usato le sue mani non per benedire, bensì per commettere un omicidio. Qualcosa da cui non si può più tornare indietro. La vita spezzata non può più essere restituita. Non è come un furto, in cui il derubato può ancora ricevere indietro il maltolto. Un omicidio provoca qualcosa di definitivo e – quindi – in un certo senso è “irreparabile”. Lo stesso Caino se ne accorge, per questo dice: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono» (Gen 4,13).
Considerando il tempo in cui fu scritto, la risposta che segue precorre millenni interi di studi giuridici e garanzia di difesa per l’imputato; basti pensare che, fino all’epoca dei popoli barbari, era norma vendicarsi. Già prima di Cristo, invece, nella Bibbia, troviamo questa garanzia, per un uomo accusato di omicidio:
Ma il Signore gli disse: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!» (Gen 4,15)
Caino ha alzato le mani, sbagliando. Eppure nessuno ha il diritto di reiterare il misfatto: non si può fondare la giustizia sulla ripetizione di un errore. No, non “torna tutto come prima”: il suolo da cui ricavava il suo sostentamento diventa sterile, è cacciato dagli uomini e da Dio, è fuggiasco sulla terra; eppure, gli è lasciata la vita, quasi a rimarcare che essa è talmente sacra che neppure la colpa più turpe possa autorizzare l’uomo a sottrarla.
Il Vangelo, breve ma intenso, ritorna su questi punti, approfondendoli e rendendoli più quotidiani.
In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna». (Mt 5, 21-24)
È difficile accettare di avere sbagliato. Anche quando cresciamo e diventiamo grandi, restiamo sempre – moralmente – un po’ bambini e, pur in questioni adulte, tendiamo a pensare “sì, però: aveva cominciato lui!”. Torniamo quindi al modo di pensare di Caino, pur senza – necessariamente – commettere omicidio. Riteniamo che la colpa sia sempre di chi inizi e che chi prosegue ha solo compiuto un’azione ineluttabile. Pensiamo che il male sia più forte di noi e che – una volta partita la catena – sia inarrestabile e conduca verso incontrollabili – e nefaste – conseguenze. Dio si fida di noi, più di quanto noi ci fidiamo di noi stessi e ci sfida a percorrere la via del Bene, anche quando non è scontata né facile. Il brano, inoltre, ci invita a guardarci più spesso allo specchio, invece di perdonare noi stessi con una magnanimità che – di solito – è più o meno il doppio della legalità con cui giudichiamo gli altri. “Non ho ucciso nessuno, la mia coscienza non può rimproverarmi nulla”. Non ci diciamo, spesso, così? A volte, però, la nostra coscienza non ci dice nulla, solo perché non l’abbiamo allenata a vedere il male che germoglia dentro di noi, pronto a esplodere alla prima miccia che lo inneschi. No, non abbiamo ucciso nessuno. Ma con le nostre parole negative, con le offese, con i giudici avventati e – spesso – ingiustificati, quante anime abbiamo crocifisso, quanti fiori sul punto di sbocciare abbiamo già condannato per direttissima come “inutili e irrecuperabili”?
Prima dell’azione, ci sono delle parole, prima delle parole, un pensiero. Solo se ci impegniamo a coltivare pensieri positivi, nutriti dalla fede in Dio, dalle nostre mani potranno germogliare azioni che profumano di carità.
La speranza è fissa lì: come don Camillo, occhi negli occhi in quelli del Crocifisso che sa perdonarci sempre più di quanto noi meritiamo di essere condannati.
Rif: Letture festive ambrosiane, nella IV Domenica dopo Pentecoste (Genesi 4, 1-16; Eb 11, 1-6; Mt 5,21-24)
Fonte: Parole nuove, don Raffaello Ciccone
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