E’ una delle pagine evangeliche (liturgia della XXVI^ domenica del tempo ordinario) che mi fa tornare dritto sui banchi di scuola delle superiori. Accadeva – sopratutto nelle verifiche che riguardavano le materie scientifiche (la cui antipatia mi fu chiara sin dal secondo giorno di prima elementare) – che appena consegnavo la verifica scritta avvertissi forte un desiderio: poterla riavere per sistemare quell’operazione che avevo sbagliato in pieno. Mi sarebbe bastato un attimo e, forse, avrei alzato l’asticella del voto finale. Sbirciando tra gli altri compiti – nel mentre consegnavo – notavo infatti che i più portati a tali materie avevano svolto diversamente il compito: ragione per cui avrei voluto “allineare” anche il mio alla loro dichiarata bravura. Ciò non mi è mai stato possibile, causa la scarsa propensione alla distrazione della mia prof negli attimi della consegna. Temo, però, che al di là di un voto che magari sarebbe stato più alto, non sarebbe cambiata la mia idiosincrasia nei confronti di tali materie. Questo ho pensato quando ho sentito l’eco delle parole pronunciate dal ricco del Vangelo di questa domenica: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Come avesse detto: “mi prendo un quattro, ma almeno prima di consegnare lascia che raccomandi ai miei amici di studiare la prossima volta”. Secca la risposta del Maestro: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro”. Simile a quella della mia di maestra: “hanno già i loro prof, che ascoltino loro”. Per poi sferrare l’attacco finale: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”. Come quando la mia prof mi spiegava che neanche se mi avesse fatto ripetizione Archimede (lei sapeva che a me piaceva familiarizzare con i geni della storia, ndr) io avrei mai capito niente delle operazioni matematiche.
E’ il timore e il tremore arrecato da Cristo quando parla del tempo, sopratutto del tempo che sembra essere andato sprecato. Dentro le pagine dei Vangeli c’è l’eterna lotta tra Abramo e Ulisse: la storia di Ulisse è un cerchio meraviglioso, la cui struggente bellezza abita nel suo eterno ritornare ad Itaca, alla sua Penelope. Abramo, invece, esce dalla sua terra sapendo che non vi farà mai più ritorno, tutto lanciato verso quella Terra che gli è stata promessa da Dio. Il messaggio è presto detto: Ulisse anche se perde l’occasione di vivere un qualcosa non deve poi temere così tanto poichè la storia ritornerà uguale. Abramo, invece, se perde l’occasione sa che quell’occasione non tornerà mai più: o la firma da protagonista all’istante o rimarrà perduta per l’eternità. Ad Itaca, terra di Ulisse, abita una ripetuta quotidianità; sul Sinai, terra d’incontro tra Mosè e il suo Dio, si apre lo spazio di un’insospettata e unica rivelazione d’amicizia.
Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale». «Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. È questa l’esperienza dei grandi Padri della fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo 11 dellaLettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da lontano… La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio.
(A. Spadaro, Intervista a Papa Francesco)
Ulisse e Abramo, il povero Lazzaro e il ricco che vestiva di lino finissimo: l’attestazione sublime che ciò che sarà di noi domani è semplicemente ciò che noi stiamo scegliendo oggi. Senza possibilità, una volta consegnato il compito, di riprendercelo per sistemare gli errori dopo averne intuito la presenza. Eppure, quaggiù, c’era stata la stessa possibilità per Lazzaro e per il ricco del Vangelo. Per loro e per me l’annuncio rimane lo stesso: Dio ti cerca e ti trova sempre. Non te lo perdere, altrimenti sei perso. E’ questa la prospettiva struggente dei Vangeli: il tempo che passa non torna. O lo firmi da protagonista o l’hai perduto per sempre. E con esso tutte quelle piccole storie che in esso sono racchiuse: incontri e partenze, trasalimenti e gaudio, giorni di festa e meriggi d’amarezza, sguardi d’incanto e occhiate di tenebra. Nel tempo abita l’inaspettata tenerezza di Dio: dare alla sua creatura la possibilità di scegliersi il futuro. Perchè non ci potrà mai essere vera gioia laddove non c’è prima di tutto vera libertà.
Del domani non c’è certezza narra la letteratura. Il Vangelo la supera, quasi annullandola: del domani hai certezza piena. Ci sarà e sarà proprio come deciderai tu che sia: da campione o da perdente. Non è destino o fatalità, ma la semplice proiezione di una libertà fattasi storia. Nella tua/mia storia di quaggiù. Sotto lo sguardo libero e amabile di un Dio rispettoso.