Con il coraggio di una leonessa ferita. Nel giorno del suo sedicesimo compleanno, invece di ricevere un regalo ne porge lei uno all’umanità intera: essere voce di chi non ha voce. Malala Yousafzai, la giovane pakistana ferita lo scorso anno alla testa dai talebani, entra nel Palazzo di Vetro dell’ONU e, di fronte ai potenti riuniti per l’occasione, non mostra flessioni di voce o di emozione: colpisce subito al cuore della storia. La schiena dritta, la testa alta e sul capo lo scialle di Benazir Bhutto, quasi a raccoglierne il mantello della profezia: certi simboli hanno un valore che le parole non riescono a pareggiare. I terroristi – discendenti diretti della stirpe dei “dinosauri”, spaventati dal clima del cambiamento – la volevano morta. E con lei il passato, il presente e il futuro di una terra splendida e martoriata. Il passato, per cancellare la memoria e le radici; il presente, per scoraggiare il sogno che anticipa azione; il futuro, per impedire che la speranza di esso inizi a trasformare il tempo presente. Eppure la storia, quella laica, racconta che la vittoria conduce all’arroganza, mentre la sconfitta porta alla meditazione: non sarà poi un caso se dai tempi della guerra di Troia – la mamma di tutte le guerre – chi vince va incontro ad un destino nefasto, mentre chi perde entra dentro i miti di fondazione dei grandi stati: chiedete ad Enea! Anche la storia sacra viaggia nello stesso binario: il potere vuole uccidere, ma ne scampa sempre uno: quanto basta per scompigliare la presunzione dei vincitori. Gli egiziani ordinarono il massacro dei primogeniti: scampò Mosè, il cui nome ancor oggi ha un’eco nefasto nella memoria dei faraoni. Quando a farne le spese furono gli Innocenti dei Vangeli, anche lì ne scampò uno, un Bambino di nome Gesù: quanto bastò per togliere il sonno e stritolare l’arroganza di Erode e dei suoi discendenti di ogni tempo.
Chi perde poi vince: “capiamo l’importanza della luce quando vediamo l’oscurità, della voce quando veniamo messi a tacere, delle penne e dei libri quando abbiamo visto le pistole – ha detto Malala -”. Che è poi la missione che gli “scampati” si attaccano addosso fino a farne una ragione di vita: vivere anche a nome di chi non ce l’ha fatta. Non c’è compassione nelle parole di quella ragazza, non c’è miseria, non c’è traccia di abbrutimento: c’è la piena consapevolezza di dover lottare per l’emancipazione della civiltà, prima che della donna. Le hanno sparato alla testa: i dinosauri non sono stupidi, sanno che è il pensiero il “motorino d’avviamento” delle rivoluzioni. Com’è vero il contrario: come il pesce comincia a marcire dalla testa, così sembra che anche l’uomo cominci a marcire dai suoi pensieri e dai suoi ragionamenti. Ragione per cui il cambiamento va bloccato nel suo sorgere. Alla follia distruttrice, però, ne scampa sempre uno/a, la cui presenza rende agitato il cuore del Maligno.
A governare con il terrore sono tutti capaci: ogni dittatura, anche quella di una certa chiesa, ne sono la dimostrazione. I cambiamenti climatici, però, arrecano sempre un duplice danno: c’è chi si estingue e chi, grazie a loro, si rafforza e prospera, facendo avanzare l’umanità. Forse è per questo che il volto di questa ragazzina – alla quale la vita ha prepotentemente chiesto di diventare anzitempo donna e simbolo – è oggi una presenza che arreca speranza. Perchè è dai tempi di Mosè – o di Enea, per chi non crede alla verità della Scrittura – che chi all’inizio perde la guerra poi è colui che crea grattacapi ai vincitori. Che, per il semplice fatto di pensarsi immortali, non hanno mai dato più di tanta importanza alla necessità di educare il pensiero e l’immaginazione. Anche i dinosauri hanno pensato ad ingrassarsi: il problema rimase la testa, troppo piccola per reggere il peso di quella folle e crassa ignoranza mortale.
(da Il Mattino di Padova, 14 luglio 2013)