La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci ricorda un’offerta, per noi abituale, ma che, per i popoli antichi, non era affatto scontata: Melchisedek offre pane e vino. Melchisedek è re di Gerusalemme, ma anche sacerdote: per questo motivo, è considerato l’archetipo dello stesso Cristo, l’Unico, vero Sacerdote, posto quale intermediario tra Dio e gli uomini. Con una somma differenza: mentre tutti i sacerdoti offrono altro da sé, Cristo offre tutto se stesso, in riscatto per il bene di molti.
L’episodio narrato, invece, nel Vangelo (Lc 9, 11-17), in cui assistiamo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci in favore dell’appetito di molte bocche, a partire dall’offerta di cinque pani e due pesci, ci interpella su due fronti: da una parte, ci invita a contemplare la sensibilità del figlio di dio, che, facendo propria l’altrui difficoltà non se la sente di rimandare la folla, digiuna, alle proprie case; dall’altra, la situazione evangelica ci invita a riflettere sull’ingiustizia e su quanto è in nostro potere fare. No, non abbiamo la facoltà di moltiplicare i pani e i pesci: questo spetta a Cristo. Ma noi possiamo offrire la nostra disponibilità a condividere: come chi ha scelto di offrire del pane e del pesce, ignaro di cosa sarebbe accaduto di lì a poco, ma fiducioso delle mani in cui li aveva consegnati. Nel dono integrale di sé, avviene la consegna (traditio): solo quando ci doniamo completamente, senza trattenere nulla per noi, condividendo con generosità quanto è nostro, potremo veder fiorire i frutti di quell’amore gratuito che è sintomo di un’umanità pienamente realizzata, che aspira ad assomigliare a Cristo, vero Uomo e vero Dio.
L’Eucaristia, che celebriamo nelle nostre comunità, rende presente, oggi come allora, il Corpo di Cristo (Corpus Domini), di cui celebriamo la solennità. In molte località, alla devozione si aggiunge il folclore e, alle processioni eucaristiche, spesso si affiancano “infiorate” ed altre manifestazioni più o meno spettacolari, che hanno in comune la caratteristica di voler rendere omaggio all’Eucaristia, sacramento centrale nella vita e nella fede cattolica, nel corso dei secoli.
«Io sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) è più che una promessa: è la garanzia di una Presenza reale, costante, che non ci abbandona mai. È il commiato del Vangelo di Matteo e un promemoria per i giorni nostri: Cristo fa sul serio, non emette promesse da marinaio. Forse, in questo passo, è racchiusa la frase più squisitamente eucaristica dell’intero Vangelo, persino più della stessa istituzione e della lavanda dei piedi giovannea. Infatti, se, nell’istituzione è spiegato il “cosa” e nella lavanda dei piedi ci è mostrato il “come”, in quest’ultimo possiamo ritrovare un profondo “perché” eucaristico.
Cristo si rende conto di quanto abbiamo bisogno di conferme e di vicinanza. Prima di lasciare i Suoi, infatti, li rassicura: «non vi lascerò orfani, ritornerò a voi» (Gv 14,18). Essere figli, nel Figlio, di un unico, misericordioso, paziente, giusto e buon Padre è il fulcro dell’intero Vangelo, la ragione più profonda della venuta di Cristo. Non più un Essere perfettissimo, ma inconoscibile e distante, nella sua magnificenza e nella sua maestà, bensì un Padre, a cui dire Abbà e di cui ricercare l’abbraccio benedicente, proprio nei momenti di maggiore sconforto ed abbandono. Quell’abbraccio a cui poter tornare, proprio quando meno ce lo meriteremmo; che è quando più ne abbiamo bisogno!
«Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 48-51).
Il pane è fonte di vita, datore di energia e forza: è l’elemento più semplice, più ricercato, più indispensabile. È l’alimento basilare della maggior parte delle alimentazioni. Pane e olio, pane e cipolla era il pranzo dei poveri. Pane nero, di segale, in genere, quello sulle mense più umili. Pane azzimo, non lievitato, era – con ogni probabilità – quello sulla tavola di Cristo e degli apostoli. È inevitabile ricorrere ad un parallelismo ben noto al popolo ebraico, perché i primi discepoli di Giovanni possano meglio assimilare le parole di Gesù: la manna è l’alimento con cui Dio provvede a sfamare il popolo d’Israele nel deserto, richiama quindi l’amore provvidente di Dio che non si dimentica anche delle necessità più impellenti ed inevitabile del nostro essere creature; ma l’Eucaristia va oltre: è pegno per l’eternità di una comunione che è pensata come eterna, in compagnia del Dio uno e Trino: «Chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui» (Gv 6,58). Rimanere richiama la possibilità e l’opportunità di stare: riporta alla mente quel dimorare (“Tu mi aprirai la porta del tuo cuore e, a tu per tu, noi ceneremo insieme” – Ap 3,20), che ci ricorda che Dio vuole stare a tu per tu con ciascuno di noi, in un rapporto che vuole fondarsi su intimità e fiducia (e non sulla “massificazione” delle relazioni).
(Cfr. letture festive ambrosiane, nella solennità del Corpus Domini, anno C – Gen 14,18-20; Sal 109; 1Cor 11, 23-26; Lc 9,11b-17)
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