Fuori. Semplicemente fuori, ancor prima d’approdare a quegli ottavi di finale che sembravano così alla portata della nazionale da destare quasi il sospetto d’annoiarsi nell’attesa di concludere primi il girone. Il verdetto, invece, è stato impietoso: a casa. Non per colpa del caldo, dell’umidità o dell’afa del meriggio (le condizioni climatiche sono uguali per tutti) ma semplicemente perchè indegni d’approdare verso quella Coppa che ogni quattro anni si concede a chi, desto, mostra d’esserne degno. Fuori anche stavolta, come nel 2010: cambia il CT, cambia qualche giocatore ma non muta la sostanza. Cosicché la nazionale tanto blasonata fa notizia per essere rincasata nell’indifferenza più totale. Quando, invece, la vera notizia sarebbe stata quella di dire che gli italiani non si sono presentati in aeroporto per fischiare chi, calcisticamente parlando, aveva l’onere e l’onore di rappresentarli.
Non è per mancanza di patriottismo, nemmeno per sogni di federalismo e tanto meno per carenza di passione: è semplicemente che quest’Italia non mi rappresenta. Dietro quella bandiera tricolore sono nascosti volti, storie e battaglie di chi ha dato la vita per la mia splendida terra. Gente semplice che non s’è montata la testa al primo successo, come l’Italia dopo aver sconfitto l’Inghilterra; antenati e nascituri che dalla mia terra sono salpati verso terre lontane senza mai mollare la presa, non come l’Italia arrendevole vista contro la Costarica; intere generazioni e casati di uomini e donne che in fronte alle sfide titaniche della loro vita – guerra, carestie ed emigrazioni – han saputo mostrare al mondo dove possa condurre l’ostinazione dei titani, non come l’Italia viziata e rassegnata vista contro l’Uruguay. Dietro quella bandiera c’è una storia che va onorata, rispettata, vissuta fino in fondo. Quel rispetto e quell’aurea magia che le tributano gli sport minori, quelli oscurati dal drago del calcio, quelli dove ogni quattro anni s’affaccia qualcuno e ti fa rinascere l’orgoglio d’appartenere ad un popolo che non s’arrende, ad una terra mistica e sportiva, ad una storia ricca di sangui, resistenza e battaglie. Dietro una bandiera c’è un paese, il tuo paese: «Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», scrive Cesare Pavese nel suo capolavoro La luna e i falò. Quel paese che, con afflato paterno, chiede d’essere presentato e rappresentato con nobiltà d’intenti e raffinatezza di stile.
No: quest’Italia viziata e chic non mi rappresenta e non voglio mi rappresenti nel mondo. Perchè in essa non intravedo la semplicità della terra di montagna, l’ostinatezza delle generazioni al fronte, la caparbietà di chi, emigrante, s’è inabissato nella miniere a sfidare la morte; non c’è traccia dell’epica poetica dei nostri scrittori, della tenacia fin quasi folle d’intere generazioni cancellate per dipingere un sogno, non c’è l’umiltà vereconda delle donne di montagna sempre pronte a rimoccarsi le maniche. Consola il fatto che l’Italia del calcio sia uscita il prima possibile: andar più lontano avrebbe significato rubare spazio e fortuna a chi, povero di mezzi ma ebbro di attributi, ha mostrato come anche nel calcio la periferia irrida i presunti grandi. E allora viva la sfrontatezza della Costarica, la gaiezza della Colombia e il calcio messicano. Onore al Cile dei minatori sopravvissuti e alla Nigeria dei leoni combattenti: all’Algeria, alla Svizzera e alla Grecia. Tanto di cappello perchè, anche se eliminati poco dopo, han saputo mostrare che, anche da sconfitte, si può rincasare ostentando la vittoria più bella: quella d’averci provato fino all’ultimo. L’Italia, manco a dirlo, ha fallito anche questa: ch’era la più nobile.
(da L’Altopiano, 5 luglio 2014)