Mi è sempre piaciuta la grammatica-italiana. È una passione che, quasi di sicuro, mi arriva per via ereditaria da papà: a lui – che ha fatto della passione per la meccanica quasi una ragione di vita – ho sempre visto ardere lo sguardo nel mentre smonta e rimonta alla perfezione i motori. “Sembra di essere in una sala operatoria” è la simpatica analisi di mia madre quando lo vede intento nel suo lavoro. Gli riconosco una capacità di concentrazione unica: la forza di papà è tutta in quella sua abilità di concentrare tutte le sue forze esattamente lì. In quell’attimo, nel quale è da solo di fronte a quel mucchio di viti scomposte, è il re della sua officina, il governante del mondo: accada quel che accada – suoni il campanello, squilli il telefono, cada il mondo -, lui manco s’accorgerebbe: non è sbadataggine la sua, è concentrazione pazzesca. È la quotazione del genio: «Il genio è uno per cento ispirazione e novantanove per cento sudore» (T. Edison). Il destino di quel motore dipende dal genio di mio papà; il destino della giornata di mio padre, dell’intera famiglia, è appeso a quel pugno di ferro.
Temo che la grammatica s’avvicini moltissimo alla meccanica. Il sospetto è che la grammatica di una lingua sia una delle vie di accesso per la bellezza. Il racconto manzoniano dell’«Addio monti» intonato da Lucia rende affascinante la lingua italiana. Non ci fosse stato Alessandro Manzoni – ci piaccia o meno -, non saremmo coloro che siamo: la lingua plasma un popolo, lo rende signore, gli insegna a raccontare chi è, di chi è figlio, cos’ha fatto, dove ha vissuto. Ma è stato quando la mia maestra mi ha fatto fare, come compito in classe, l’analisi di quel canto – prima quella grammaticale, poi la logica – che mi sono commosso. Ero fiero d’avere l’italiano come madre-patria. Perché fare l’analisi è, in un certo senso, togliere il vestito ad un racconto, spogliare le parole fino ad averle nude davanti a noi. Per poi contemplarle nella loro intimità: “Ma quanto è bella questa congiunzione, quest’apostrofo. Senti la musicalità di questa. Guarda quest’altra: è doppia, se la divido è ancor più bella”. È quando sono così, scomposte come le parti di un motore smontato, che le parole fanno sentire il loro peso: “Guarda che architettura ha questa. Senti il peso di quest’altra. Questa, scritta da sola, pare una cassaforte”. Eccola, la mia passione: conoscere la singola parola, per poi imparare ad abbinarla alle altre, tentando di organizzare una frase. Come quando, da bambino, la mamma mi insegnava ad abbinare i vestiti: “Con la camicia a righe non stanno bene i maglioni a righe. Coi pantaloni della tuta, una giacca stonerebbe: meglio un paio di jeans”. Adoro la lingua italiana con le sue mille particolarità linguistiche, la posizione degli accenti che capovolgono il significato di una parola, l’inesausta bravura di creare significati cambiando gli abbinamenti. Eppoi il fatto che alcune parole valgono come sostantivi, altre come verbi: «Con questi avete in mano il cuore di un enunciato» (M. Barbery).
Ciò che permette alla dittatura di sostenersi è il controllo del linguaggio: la parola è l’arma più pericolosa che il popolo tiene tra le mani. Il boia lo sa, è per questo che ama svilirla, impoverirla, anestetizzarla. Spenta la parola, cadono le congiunzioni, i verbi si fanno inutili, i discorsi s’indeboliscono: il dittatore gode. A me la grammatica-italiana piace tantissimo. Piace così tanto che l’altra mattina, all’alba, sono andato in edicola per ricominciare un’avventura di scoperta della mia lingua con «L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile», proposta dal nostro giornale nelle prossime quattordici settimane. È vero che l’italiano si impara da piccoli. È vero anche che, com’è della bellezza, non basta averlo incontrato una volta per dirsi innamorati. Se non lo amo, però, non mi amo.
(da Il Mattino di Padova, 24 settembre 2017)