L’iradiddìo (San Paolo, 2017) è il nuovo lavoro editoriale di Marco Pozza. E’ la terza parte della trilogia iniziata con L’imbarazzo di Dio (20o14) e proseguita con L’agguato di Dio (2015). “Iradiddìo” è una parola che, quand’è usata in senso figurato, sta ad indicare un’eccedenza, l’incapacità di formulare una misura, la non-limitazione: “Quel vestito costa l’iradiddìo, ha bevuto l’iradiddio, i ladri han portato via un’iradiddìo di argenti”. Una parola che l’autore ha volutamente deciso di abbinare alla figura di Cristo: «Di Uno come Cristo, il mondo è ancor lì che si scervella: “Quanto costa amare così?” L’iradiddio».
L’iradiddio assomiglia ad un viaggio – scritto con lo stile dissacrante e profondo ch’è il tratto tipico dell’autore – dentro il vissuto di Gesù di Nazareth. La vita del Cristo viene scandita in quattro capitoli, giocati attorno al numero tre: le tre ore di buio sul Golgota, i trent’anni di vita nascosta a Nazareth, i tre anni di magistero in Galilea, i tre giorni del Triduo a Gerusalemme: «La prima-vera sfida è credere ch’è stato, in principio, un uomo come me: a levigare legni, a radersi la barba, a far muscoli. Veramente uomo. Nacque ch’era Dio: uomo lo divenne, pagandolo a caro prezzo». Ad ogni capitolo, l’autore abbina una delle quattro stagioni: le tre ore le accoppia con l’inverno, i trent’anni con la primavera, i tre anni con l’estate, i tre giorni con l’autunno. Cogliendo le stagioni nel loro scorrere e dipingendone i tratti più caratteristici – «Provengo da esse come si proviene da un paese» -, innesta cenni narrativi di quella fede semplice e bambina nella quale è cresciuto. E che, di rimando, aiuta prima a far emergere nel capitolo in cui coglie Cristo all’opera. Sempre nella compagnia discreta della Madre.
Prima delle quattro stagioni di Cristo, l’autore antepone un capitolo intitolato “Saldi d’inizio stagione” nel quale mostra di voler preparare la tela sulla quale poi dipanare il suo personale ritratto di Cristo. E’ la lotta tra Lucifero e il Creatore, la menzogna e la bellezza: «La partita è tutt’ora in corso: vite-esagerate da una parte, vite-senza-aggettivi dall’altra». L’ultimo capitolo – intitolato “Non ci son più le mezze stagioni” – è la traccia di una nuova partenza: inizia la stagione della Chiesa, dove nulla è più com’era prima dell’avvento di Cristo.
Tutta l’opera – in continuità con L’imbarazzo di Dio e L’agguato di Dio – viene incastonata nel greto di una storia raccolta in periferia: il preludio e il commiato hanno il volto di Salvatore, un povero-cristo di stanza in una patria galera che, la notte di Natale, brevetta una delle definizioni più affascinanti di cosa sia per lui la storia di Cristo. Di quale novità siano stati apportatori nel mondo di quaggiù il mistero dell’incarnazione e quello della redenzione.
E’ il ritratto di Cristo colto nella sua allegrezza. Nelle sue stagioni.
«Nuto, che non se n’era mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni.
O forse no, credeva sempre nella luna.
Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo». (C. Pavese)