«La prima volta che l’ho visto scendere in chiesa per la messa, aveva addosso una scarpa di un tipo e l’altra di un altro. La camicia abbottonata come abbottonerebbe il suo grembiulino un bambino il primo giorno della scuola materna. Solo i capelli erano in ordine: per chi è calvo, basta poco a pettinarsi».
Mentre don Marco parla, i suoi occhi sprizzano un’allegria infettiva. E’ difficile arginare la voglia di raccontare la vita a chi, la vita, ogni giorno la vede messa a dura prova dentro l’inferno: chi ha morso, anche solo una volta, il frutto proibito della salvezza, ne resterà famelico per l’eternità.
Lui non s’arresta, continua.
«Per due anni è stato un uomo-muto: per lui parlava il suo vestiario, i suoi ridicoli abbinamenti, la sua mattità certificata in mille carte giuridiche. Poi un sabato mattina, durante la messa, si alza in piedi, senza il minimo cenno di preavviso. Lo puntiamo tutti, quasi col fiato sospeso per poi ridere meglio. Lui spara una cannonata simile ad un colpo di mortaio: “In questi anni, ho capito solo una cosa: sono un grande peccatore”. Poi fa un respiro, come per prendere la rincorsa, e sferra l’attacco mortale, micidiale: “Siccome sono un grande peccatore, sono anche il divertimento di Dio”. Sull’assemblea è calato l’imbarazzo, anche la vergogna perché a pensare male dell’uomo quasi sempre si sbaglia. Io, prete, ho ripensato al mio dottorato in Teologia: l’avrei bruciato volentieri come un covone di paglia. Non ero mai giunto a pensare al mio peccato come occasione di divertimento da parte di Dio.
E’ stato un agguato. In piena regola».
Nasce qui il titolo del suo ultimo libro, “L’agguato di Dio”, per l’appunto?
«Quella mattina ho avuto l’evidenza assoluta che, a me, Dio si è sempre rivelato in agguato. Dietro le sembianze di quell’uomo con le scarpe spaiate, del quale racconto come preludio e commiato un altro frammento di vita esilarante, Dio era imboscato per tendermi una trappola pestifera: “La perfezione, reverendo don Marco, è cosa assai noiosa. Riconosciti peccatore e io mi divertirò a ricostruire la tua bellezza perduta”. All’inferno non è questione di andarci oppure meno, dopo morti: all’inferno uno decide di starci o di scappare. In quel preciso istante, ho intuito che stavo firmando il mio inferno. Che l’uomo libero era l’altro, il povero-Cristo dalle scarpe spaiate. Di più: quel poveraccio era Cristo».
Perché proprio il termine “agguato”? Ha dell’animalesco in sé.
«Il termine “agguato” ha, di per sé, un’accezione prevalentemente negativa. Come anche il termine “imbarazzo”, che ho usato per L’imbarazzo di Dio (San Paolo, 2014). L’agguato dice l’appostamento, l’insidia, il tranello, la trappola. Stare in agguato è preparare un’imboscata, prepararsi ad un’imboscata: è una grammatica che appartiene alla dimensione dell’animale più felino, dell’uomo più assassino, del Dio più divertente. E’ un termine che, rischiandolo, permette di tenere in unità piani diversi della stessa Rivelazione di Dio: la capacità di sorprendere il trantran feriale di Matteo/Levi, la ferocia nel ghermire una preda come Geremia («Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre»), la ferocia della Grazia che stende al suolo Saulo/Paolo alle porte di Damasco. L’imprevedibilità di un Dio che ha promesso di stare vicino a me fino alla fine del mondo, ma con i modi e i tempi che deciderà lui, non io. L’agguato non sopporta il minimo compromesso: in quel caso non sarebbe più agguato».
La vista, l’udito, il tatto, il gusto, l’olfatto: i cinque sensi come pentagramma sul quale mettere in musica il divertimento di Dio. Partiamo da qui.
«Non si può che partire e ripartire da qui. I cinque sensi sono il confine ultimo e primordiale tra noi e il mondo: è il bordo-pagina nel quale l’uomo tocca la storia. E’ attraverso gli occhi, le orecchie, le mani, la lingua e anche il naso che un bambino impara a vedere un frutto, un adulto ad udire il rumore di un passo, una donna ad assaggiare il gusto della peperonata, uno scultore a sentire la forma di un legno, un innamorato ad avere memoria di un incontro. Togliete i cinque sensi, e all’uomo non rimarrebbe che una vita da paralizzato.
Tutto passa attraverso i cinque sensi: Dio non fa assolutamente eccezione. Anche Lui, facendosi uomo, ha sposato le logiche della storia più umana: non lo si conosce attraverso la mente, lo si percepisce attraverso i sensi. Per poi ripensarlo nel laboratorio dell’anima, anche dei pensieri. Togliere a Dio lo spazio dei cinque sensi, è spianare la strada a Lucifero, il principe dei contro-sensi».
A proposito di Lucifero. Uno, dopo aver letto il suo libro, pensa che lei abbia più di qualche conto in sospeso con Lucifero.
«E’ la persona più lurida che io abbia mai conosciuto. Conosco benissimo quel lordume che lui è: certe mattine l’ho visto stampato nel mio cuore, nel mio sguardo, fin dentro i miei pensieri. Ho un grossissimo conto in sospeso con Lui, me lo sono ereditato dai miei padri, al tempo della Genesi: aver instillato nell’uomo il sospetto che il Dio della creazione e della meraviglia fosse un Dio geloso e infido. E’ stata la più grande bastardaggine della storia universale: la madre di tutte le altre bastardaggini successive. Lo odio dal profondo del mio cuore, e ci riesco a volte: quel suo essere il padre del sospetto me lo rende insopportabile. E’ uno smargiasso, uno sbruffone, un millantatore, un gradasso, un fanfarone, un bullo. E’ un pugno di polvere che tenta ogni mattina di scalare il Cielo. E’ un pirla che non s’arrende: sa di avere le ore contate, sa che da qualche parte c’è già una Donna in agguato, sa molto bene che Dio non scenderà mai a patti con lui. Eppure non cede.
Neanche Cristo, però!»
Anche Lucifero, allora, viaggia attraverso i cinque sensi. Come Cristo.
«Questo è strabiliante: il Vangelo è lo sposalizio degli opposti, di ciò che sembra essere un insulto al buon senso. Solo alcuni: il grano e la zizzania, il cielo e la terra, il feriale e l’eterno, l’invisibile e il visibile, il grido e il silenzio, la guerra e la pace, Dio e l’uomo. Cristo e Lucifero: anche loro assieme, a sfidarsi nel medesimo campo di battaglia: il cuore dell’uomo. A darsele di santa ragione.
La prima volta li riconosci appena un attimo dopo che sono passati. Passa il Demonio e la vista diventa offuscamento, l’udito frastuono, il tatto scottatura, il gusto aceto, l’odorato pazzia. Quando passa Cristo, cambia la musica: la vista diventa beatitudine, l’udito una ninna-nanna, il tatto una carezza, il gusto diventa dolcezza, l’odorato nostalgia. La prima volta lo Smargiasso mi può anche fregare, la seconda volta un po’ meno: è di una noia mortale nelle sue manovre. C’è solo una cosa che gli riesce così bene da portarsi a casa di continuo troppi cuori: promette molto meno di ciò che promette Cristo, ma te lo promette in tempi brevissimi, in maniera indolore, senza una goccia di sudore. Fosse onesto, ma non lo è affatto, avviserebbe dell’amarezza che sopraggiunge subito dopo quell’immediatezza. Invece è un fanfarone, uno di quelli che si diverte a rovinare i sogni di Dio, la bellezza nascosta nelle sue creature».
Lei definisce Lucifero un «millantatore». Quando parla di Dio, nel capitolo finale, lo definisce «L’imboscato». Siamo ai limiti dell’imprecazione.
«Lo sottoscrivo per dieci volte di seguito: l’intero messaggio cristiano parla di un Dio-imboscato. Dell’imboscarsi di Dio. C’è una Scrittura intera che ergo come difesa: il Dio di Mosè che s’imbosca dietro un volto che non si può vedere, la colomba che s’imbosca nelle fenditure della roccia, la Grazia che s’imbosca nel sangue del peccato, la verità che s’imbosca nel pragmatismo di Caifa («E’ conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo»), la santità che s’imbosca nelle membra fiacche e imbastardite di un ladrone. Il Natale è Dio che s’imbosca nell’uomo, dopo essersi imboscato nel grembo di una Donna, agguantata in un primo mattino come mille altri. Non più uguale a nessun altro, dopo quell’agguato. Andiamo oltre? Un Dio imboscato nel matto dalle scarpe spaiate, nella storia deragliata, nel volto offeso e tumefatto. La follia? Un Dio che, per darsi appuntamento con qualcuno, s’imbosca dentro di me: come fa un Uomo-Dio a fidarsi di uno come me? E’ semplicemente assurdo, oppure è la conseguenza dell’eucaristia: nella comunione, che cosa fa Dio? S’imbosca dentro di te.
“Dio, l’imboscato, prega per me”. Senti che litania!»
Le invidio la sua capacità di tenere in unità gli opposti. Forse per questo usa con cura certosina parole di poesia, anche difficili a volte, ma così dense di vita da sembrare veri e propri agguati. Pronti per l’assalto.
«Mi ricordo la prima volta che ho sentito la parabola della pecorella smarrita: avrò avuto, forse, sette anni. Al mio paese ancora oggi si vedono greggi, armenti e pastori: la transumanza è una sorta di liturgia laica, non per questo meno capace di Cielo. Sentendo quel rapporto – novantanove contro una – mi son detto: “Questo è un insulto al buon senso”. Penso sia nato lì, dentro un’aula di catechismo sperduta tra le colline venete, la mia ammirazione nei confronti dell’uomo Gesù: imprevedibile, mai banale, paradossale, apparentemente esagerato e assurdo. Capace dell’immaginazione più pericolosa che il mondo conosca: quella che diventa azione, agguato, salvezza. Ti basta percepirlo una volta, ed è fatta: sei dannatamente fregato. Una fregatura di salvezza».
La misericordia di Dio.
«Appunto. Trovatemi una forma di agguato più feroce della misericordia di Dio, se ne siete capaci. L’amore che ha la meglio sull’odio, la vendetta sul perdono, l’amore sulla conoscenza. Solo un Papa-d’agguati come Francesco poteva estrarre dalla sua orazione l’idea di un Giubileo della Misericordia: un anno intero da passare approfittando della magnanimità di Dio. Le parabole della misericordia sono i racconti più senza-senso che nessuno sia mai riuscito neanche solo ad immaginare. Peccato che dentro quell’apparente non-senso Lui abbia nascosto la strada che porta in Cielo. Un giorno, mentre ripensavo a quella pecorella fuggiasca, mi sono accorto di un particolare magnifico: non è la pecorella che chiede di essere ritrovata, come per esempio il figlio scappato di casa con i suoi averi. E’ il pastore-Dio che si mette alla ricerca di lei. Che è come dire: a Dio noi manchiamo molto di più di quanto Dio manchi a noi. E’ una forma di delirio del cuore, questa: Dio avverte una mancanza così struggente di me, che è infinitamente maggiore della mancanza che, magari solo qualche volta, io provo di lui. Perché Dio s’intestardisce a venire in cerca di me? Perché, trovandomi, sta meglio lui. Eccolo il divertimento di Dio: ostinarsi a non dare per perduto nulla e nessuno di ciò che gli uomini hanno già decretato perduto».
Il gruppo dei discepoli esce con le ossa fracassate dopo essere passato attraverso la sua penna. Prima ancora, attraverso la sua meditazione.
«Il loro comportamento è terrificante. Li prendi per quello che sono e ti verrebbe da dire: “Scusa, non ce n’erano di migliori in giro, tanto per partire col piede giusto?» E’ una cosa incredibile: sono incuranti degli altri, hanno un amor proprio da far ingelosire Narciso, sono invidiosi e litigiosi, anche ottusi. Sono i custodi delle confidenze più intime del Maestro e, di lì a poco, diverranno gelosi delle sue confidenze: l’esatto opposto di ciò per il quale sono stati scelti. Scandalizzano per la loro grossolanità: quando prendono sonno, verrebbe da prenderli a sberle. Poi, però, cambiano marcia: si lasciano squartare da capo a fondo, chiedono d’essere crocifissi a testa in giù, arrostiscono felici nelle graticole.
Gli restituiscono il dovuto di tutti gli anni pieni di figure barbine.
Oggi, quando li guardo e li prego, dico tra me e me: “Meno male che ci sono loro, che sono fatti così, altrimenti chi mi farebbe compagnia!” Mi ritrovo nella loro umanità confusa, m’affascina la loro sequela immediata, m’impensierisce quella loro capacità di lasciarsi capottare dall’amicizia di Cristo. Nessun amore, quando s’annuncia per la prima volta, è mai facile da credersi. D’affidarsi. Loro – nonostante tutto, grazie a tutto ciò – sono riusciti a lasciarsi stordire dalla bellezza. Io, sovente, sto ancora a calcolare i pro e i contro».
«D’allora, tutto come allora: gente che va, gente che viene. E’ il Vangelo».
«S’intrufolò discreto tre le viuzze di una terra anonima e di confine, nelle membra arrotondate e fiacche di una donna sbalordita da un annuncio ch’era quasi blasfemia: «Dio cerca un nuovo ingresso nel mondo. Bussa alla porta di Maria. Ha bisogno della libertà umana» (J. Ratzinger). Tra tregenda e batticuore, imparò presto a battere le mani e lavarsi i piedi, ad andare a scuola e sciacquarsi i panni, a chiamare padre Iddio senza toglier pregio alla premura del carpentiere di bottega. A lavorare il ferro, a fare la spesa, a maneggiare la tovaglia e le stoviglie, l’algebra e la geometria, l’Uno e il Trino. Apprese la quiete e la tolleranza, la fuga e il ritorno, l’amore e i suoi contrari. Furono anni d’apprendimento e d’apprendistato, nella più rigorosa delle discrezioni possibili.
Era Dio ma pochi s’accorsero di Lui».
Ultima domanda. Dovesse scrivere un libro su Papa Francesco, che titolo ci metterebbe.
«Non c’è dubbio: “L’agguato di Dio”. Anche per Benedetto XVI rimetterei l’occhio sul medesimo concetto di agguato, magari ripescando le sfaccettature dell‘imbarazzo. Due papi assieme: se non è un agguato imbarazzante questo!»
***
L’agguato di Dio è da leggersi tutto così, quasi in apnea. Sono attimi, sono lampi, eppure danno senso a tutto quanto. Dietro c’è un uomo, l’autore, che forse stava annoiando se stesso a fare il personaggio: quando ha trovato più gioia ad essere vero che perfetto, ha scelto d’andare all’Inferno. Per stanarsi gli agguati che il Cielo gli aveva predisposto.
Ce n’è abbastanza per trovarsi agguantati. Inguaiati nei discorsi.
Presentazione ufficiale de “L’agguato di Dio”
Il libro verrà presentato in anteprima nazionale venerdì 30 ottobre 2015 (ore 20.45) presso la chiesa parrocchiale di Cogollo del Cengio (VI). La serata, animata dal coro parrocchiale, sarà condotta dalla giornalista Lucia Ascione, conduttrice del programma Bel tempo si spera di TV2000.
Si consiglia, a chi vorrà partecipare, di arrivare con qualche minuto di anticipo.