Sarebbe bello pensare – come raccolto domenica da Il Mattino di Padova – che la vita di quella parrocchia ai piedi dei Colli Euganei continuasse felice e speranzosa come niente fosse accaduto. Certamente si ripartirà, come dopo la morte di ogni Papa succede un’elezione successiva: ma rimangono i perchè, lo stile, le modalità di una presenza che ha vissuto tra le vie di paese. L’anticipavamo giorni fa: d’estate sui bollettini parrocchiali è tutto in gioco di “dico-non dico”, di misteri e allusioni, di scansate per evitare cantonate. Però poi rimangono loro, quel piccolo gregge che dalla sera alla mattina (linguaggio figurato) si vedono svestire l’altra faccia del loro sacerdote. Anni fa erano i preti giovani a dettare preoccupazione e tensione per un ministero dalla difficile gestione. In questi ultimi tre anni sono stati preti ultraquarantenni a mostrare che l’umano non conosce limiti d’anagrafe. Perchè laddove il cuore di un sacerdote rimane solo o incompreso, ben presto s’addensano “creative” opportunità di rendere meno malinconica una vita che, idealmente, non lo dovrebbe essere. E per ri-organizzare la quale non basta lo spostamento da un capo all’altro dei confini: grandi danni sta pagando la chiesa per aver preferito lo struzzo all’aquila.
Nello studio della storia tutti ci siamo imbattuti almeno una volta in Lutero, in Calvino e tutta la loro bella compagnia: gente che, lungi dall’essere ignorante, della Verità ha preso una scheggia e l’ha condotta all’esasperazione: facendola diventare eresia. Oggi di eresie esplicite – di quelle che talora portano anche alle fratture, agli scismi e alle complicazioni diplomatiche – ai più sembra di non notarle. Eppure, ad uno sguardo più profondo e attento della realtà che ci circonda, non sarà difficile intuire pericolosi segnali, spesso tramutati in realtà, che annunciano la presenza di uno scisma nascosto: un qualcosa di non manifestatamente evidente, esplicito, dichiarato; ma un lento allontanarsi da una tradizione e da uno stile che ha scritto la storia della fede. Non si sa dei due quali sia più pericoloso: se quello esplicito che tanta fatica procura ora nella ricomposizione delle fedi e delle religioni, o se quello nascosto e sotterraneo che lentamente infiacchisce la credibilità e l’agire di una chiesa: sia essa particolare o universale. Forse non è solo una questione di celibato da rivedere, anche se quello potrebbe avere i suoi frutti come serenità e amabilità della vita: il vero dramma oggi è lo scollamento tra la dottrina ufficiale della Chiesa – il più delle volte redatta “dall’elicottero” – e il vissuto sudato della gente semplice, di cui il prete è uno dei rappresentanti. Ostinarsi a ragionare sui massimi sistemi, sulle grandi summe della teologia senza verificarne poi l’applicabilità umana facilmente porta a far nascere dentro il prete di paese la disaffezione verso una idealità faticosa da tradursi in umanità vissuta. Della dogmatica, della morale e della spiritualità conosciamo a menadito declinazioni, sfumature e fraseggi: rimane da apprendere – giorno dopo giorno – la difficile decantazione quando i grandi drammi di un parroco – che magari vorrebbe anche poter pregare – sono le bollette della luce, il campo da sistemare, le tegole della chiesa che fanno acqua. Forse è proprio per questo che al prete si perdona tutto (manipolazione economica a parte): ma non sarà questo lasciar passare che permetterà alla chiesa di ritrovare non solo la credibilità della sua dottrina ma anche la manifestazione della vivibilità e dell’amabilità della sua esistenza concreta.
L’Uomo dela Croce imparò l’obbedienza dalle cose che patì: a noi rimane la speranza che tutto ciò sia ancora applicabile. E la fatica di ripartire dopo ogni trave che si spezza nella cattedrale della fiducia dove vive oggi la gente.