Il testo della prima lettura, tratto dagli Atti, muove dal ritorno a Gerusalemme di Paolo, dopo il suo terzo viaggio missionario. Riconosciuto nel tempio da persone che vogliono uccidere, deve essere scortato dalla milizia.
Protetto dai soldati, pronuncia la sua prima difesa, riportata dagli Atti (la seconda difesa è ricordata in At 24,10-21 e la terza in At 26, 2-23) e parla in ebraico, sorprendendo la gente che si incuriosisce e resta ad ascoltarlo in silenzio.
Il suo intervento inizia con la propria presentazione, illustrando la propria vita e la propria formazione, per sottolineare la propria appartenenza non solo al popolo giudaico, ma a quello meglio istruito, a livello culturale e religioso (è sicuramente con malcelato orgoglio che Paolo si definisce “pieno di zelo” e “educato alla scuola di Gamaliele”, che era – allora – uno dei rabbini più in vista e stimati di tutta la cultura giudaica).
Proseguendo in una catechesi su Gesù, lo definisce “Voce” e “Luce”, che è la modalità attraverso cui, nel suo incontro soprannaturale con la Verità, Paolo stesso è pervenuto alla fede.
«Perché mi perseguiti?» (At 22,7): questa è la domanda di Cristo a Paolo, tradendo la totale identificazione di Cristo con chi è fedele a Lui (“chi ascolta le mie parole e le mette in pratica, questi sono mia madre e i miei fratelli!”, ). Cristo è presente, nel dolore delle persecuzioni, di chi sceglie il martirio, piuttosto che l’abiura della fede. Questo significa che anche noi è chiesto questo coraggio, se vogliamo dirci suoi discepoli; spesso, invece, basta molto meno a spaventarci e farci propendere verso una prudenza che ben poco ha di cristiano e che – piuttosto – rischia di offendere la memoria dei martiri, di ieri di oggi. Prima ancora della persecuzione violenta, spesso è lo spauracchio della beffa, dell’emarginazione lavorativa e sociale a spingerci a tenere un basso profilo, per quello che riguarda l’esposizione pubblica della propria fede. Spesso, infatti, finiamo per mascherarci dietro al malinteso concetto del rispetto umano, per celare quello che facciamo fatica ad ammettere a noi stessi: la paura ci schiaccia. Ci schiaccia la paura di non ricevere consenso, approvazione, stima, riguardo, rispetto, calore, affetto. Per cui, finché ci può essere un tornaconto positivo, possiamo anche dirci cristiani, ma vi poniamo dei limiti, che sono – purtroppo – quelli dell’approvazione del mondo e delle sue ideologie. Dimenticando che, pur vivendo nel mondo, il cristiano è chiamato a non essere del mondo, garantendo il primato, sulla propria vita, alla signoria di Cristo. Al Cristo non è chiesto – necessariamente – il martirio, ma ciascuno di noi, dal momento del Battesimo, è bene che sappia che Cristo chiede di seguirlo, sulla via della santità, se necessario, testimoniandoLo fino al martirio. Anche quando questo consiste non nel farci sbranare dai leoni, ma nell’affrontare il ridicolo, la beffa, l’ingiuria, la diffamazione.
In San Paolo, prima e dopo la conversione, ritroviamo – indomita – una ricerca senza sosta della Verità. Anche quando perseguitava i cristiani, infatti, lo faceva in nome della fede – giudaica – convinto di estirpare, in tale modo, l’eresia. È utile soffermarsi su un simile fraintendimento. Non è mai possibile contrastare una falsa dottrina, screditando la persona che la propaganda. Le idee vanno messe alla prova tramite lo scontro con altre idee. Se le idee sono sbagliate, periranno. Chi le propaganda, altro non è che una creatura, che ha avuto origine dal pensiero del Creatore e – come tale – non può che essere “potenzialmente buona”.
È innegabile però che il “convertito eccellente” Saulo, fatica a presentarsi, come nulla fosse, tra quei cristiani che, – fino a poco tempo prima – perseguitava con ardore e convinzione, per cui Paolo fa notare:
Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nelle sinagoghe quelli che credevano in te; e quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anche io ero presente e approvavo, e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. (At 22, 19-20)
Con lungimiranza, dunque, il Signore, pur dopo averlo fatto accogliere dalla comunità cristiana preferisce inviarlo “alle nazioni”, ai lontani. È così che Paolo, il giudeo cresciuto alla scuola prestigiosa di Gamaliele, diventa l’Apostolo delle Genti. Perché a Dio è piaciuto fare “dei due un solo popolo” (Ef 2,14)
Fratelli, a Cristo è resa questa testimonianza: / «Tu sei sacerdote per sempre / secondo l’ordine di Melchìsedek».
Si ha così l’abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità – la Legge infatti non ha portato nulla alla perfezione – e si ha invece l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale noi ci avviciniamo a Dio. Inoltre ciò non avvenne senza giuramento. Quelli infatti diventavano sacerdoti senza giuramento; costui al contrario con il giuramento di colui che gli dice: / «Il Signore ha giurato e non si pentirà: / tu sei sacerdote per sempre» (Eb 7, 17-20)
È particolarmente evocativo trovarsi tra le mani questo frammento della lettera agli Ebrei, proprio in un periodo in cui, un po’ in tutta Italia, è tempo di ordinazioni presbiterali e, conseguentemente, anche di anniversari d’ordinazione. Questa Parola risuonerà in tante nostre chiese, coinvolgerà, magari, amici, parenti o conoscenti. Pone in rilievo anzitutto la differenza tra il sacerdozio ebraico (sostanzialmente dinastico) e quello successivo. Il paragone è la “stonatura”, l’eccezione di Melchisedek, che è re e sacerdote senza genealogia e che, proprio in virtù di questo, diventa “ponte” ideale tra il sacerdozio vetero e neotestamentario. Qui arriva la precisazione. Il vero ed unico Sommo Sacerdote, il Sacerdote dei Sacerdoti, è Cristo stesso che è – al contempo – sacrificio e “sacrificatore” perfetto. Infatti, nel suo aderire pienamente alla Volontà del Padre, può essere – pienamente – “pontefice”, cioè punto di unione tra la terra ed il cielo, tra il divino e l’umano, Lui, che è vero Uomo e vero Dio ed ha condiviso la nostra vita “in tutto, fuorché nel peccato” (Eb 4,15).
Il brano del Vangelo, in questo tempo, ancora pasquale (ma sempre più vicino alla Pentecoste) ci riporta all’Ultima Cena, con gli ultimi detti di Gesù e con l’annunzio dello Spirito Santo:
Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future (Gv 16,13)
Questo – pur breve – richiamo ci suggerisce varie cose. La prima è che l’aspirazione del cristiano dovrebbe essere alla “verità tutta intera”, senza compromessi, con curiosità ed onestà intellettuale, senza arrendersi alle fonti faziose o alle notizie false. Una verità c’è sempre. Per quanto la conoscenza – giocoforza – sarà sempre parziale (solo Dio, onnisciente ed onnipresente, può avere un quadro davvero esaustivo della realtà, nella sua innegabile complessità), è pur sempre possibile curare un andamento asintotico che richiami – almeno – la volontà di aspirare a quella verità che, pur irraggiungibile, permane un desiderio affascinante e lusinghiero. La seconda è l’assicurazione che la fede, così come la conoscenza intellettuale, lungi dall’essere un mero “dato di fatto”, è – piuttosto – l’invito ad intraprendere un percorso, probabilmente mai concluso, finché non raggiungeremo l’abbraccio del Padreterno.
Possiamo anche noi – come san Paolo sulla via di Damasco – essere investiti dalla potenza accecante della Luce di Cristo e dalla sonorità impetuosa della Sua Voce, ogni qualvolta la pigrizia, la paura, la comodità ci spingono a rifiutare la radicalità della testimonianza evangelica, preferendole il “quieto vivere”. Dimenticandoci che seguiamo quel Cristo che non ci ha amati per modo di dire, o solo a parole, ma con la donazione totale e senza riserve di Se stesso.
Cfr. Letture festive ambrosiane, nella VI Domenica di Pasqua (At 21,40b-22,22; Sal 66; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22)
Fonti: Parole nuove, don Raffaello Ciccone
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