Chissà quante volte quel ricco, uscendo di casa, si sarà trovato tra i piedi il cencioso Lazzaro, visto che lui «stava alla sua porta, coperto di piaghe». E, probabilmente, la sua massima percentuale di tenerezza l’avrà ficcata dentro la risposta più lerce che un ricco possa riservare ad un mendicante: “Forza, che supererai anche questa!” E proseguiva dritto nel suo egoismo, senza accorgersi d’essere un cannibale nei confronti non di Lazzaro ma di se stesso: si mangiava il cuore da solo pur di con condividerlo con quell’uomo. Era di quelli che il più piccolo dolore al suo mignolo lo infastidiva più della distruzione di milioni di suoi simili. “Non sono mica egoista – andava assolvendosi -: semplicemente mi sto specializzando in me stesso”. Era cittadino del suo tempo, di ogni tempo: il più grande collante capace di tenere unità la società è lo stesso che, un giorno, la porterà ad autodistruggersi: l’egoismo. Un’incomprensibile incoerenza. Viveva nell’arte di michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. «Indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti»: alla faccia!

Il cencioso che muore va dritto nel seno di Abramo: basta più cani, piaghe e stenti di fame ma la misericordia di Dio. Il ghiotto mangione – quello che aveVa abbreviato Dio con Io – và dritto nel regno dei morti (non all’inferno!). E laggiù il fuoco – il medesimo che abbrustoliva le cosce di pollo, le costine di cervo, manzi e manze – gli fa subire l’improbabile, ustionandolo assai: «Soffro terribilmente questa fiamma» grida ad Abramo che, all’altro lato dell’abisso, sta coccolando il suo Lazzaro, l’ex cencioso di stanza alla porta del ricco. Gli basterebbe la punta del suo dito bagnata d’acqua, ma nemmeno questa gli è concessa: l’arbitro ha già fischiato la fine della partita quaggiù in terra. Ciò ch’è scritto è scritto! Di quel suo dubbio che l’ha fregato – “Tanto io son immune da queste cose!” – oggi non sa più che farsene, quasi lo bestemmia: “Non fossi mai nato, porcocane! Ah: se non avessi fatto, se non fossi stato, se tornassi indietro”. C’era un solo modo, al tempo, per scansar la beffa non facendosi beffe di quell’uomo alla porta: quello di confessare il proprio egoismo, per cercar d’esser meno egoista degli altri. Un giorno, camminando per mano al nonno nei boschi della mia terra, lui mi mostrò che le foglie, sui rami degli alberi, sono disposte in modo da non coprirsi tra loro ma lo sono in maniera tale da permettere a ciascuna di ricevere la sua dose giornaliera di luce: “L’egoismo non favorisce la crescita!” sembrava bisbigliarmi il nonno parlando delle foglie sugli alberi. I (più) poveri farebbero un applauso al nonno: loro possono anche dimenticarsi quello che hai detto, quello che hai fatto ma non dimenticheranno mai come tu li hai fatti sentire. Lerci o principi.

Del ricco, dunque, a nessuno gliene sbatte più nulla? Eppure, alla fine, c’è un qualcosa d’inaudito che accade: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perchè ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente». Per la prima volta l’egoista pensa ad altri all’infuori di sé: i tormenti l’hanno scalfito, il cuore dà cenni. Non ha compreso in vita il bene? Lo sta comprendendo adesso tra sberle e pizzicotti infiammati. C’è un Dio che mentre restituisce a Lazzaro ciò che gli spetta, continua a lavorar per il ricco anche oltre la linea della morte: c’è anche lui da tentare di salvare! «Se non ascoltano Mosè e i Profeti non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Il Purgatorio (gli ìnferi non sono l’inferno) è l’ultima occasione di riabilitazione. Lì deve stare: “Non l’ha capita con le buone? La capirà con le cattive!” L’importante è che la capisca e si salvi anche lui. Ripenso al finale della parabola del Padre Misericordioso: e se fosse stato il figliolo prodigo, invece che il padre, ad andar fuori dalla porta a chiamare il fratello maggiore? «Ho cinque fratelli: che non vengano anch’essi in questo luogo di tormento!». Un piccolo indizio: quanto basta a Dio per infilarsi dentro e tentare fino all’ultimo l’aggancio con quell’anima (apparentemente) perduta.

(da Il Sussidiario, 24 settembre 2022)

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”» (Vangelo di Luca 16,19-31).

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