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Pensiamo un po’ se, al posto del centurione, ci fosse stato il buon Zaccheo.  
«Oggi, verrò a casa tua» (Lc 19, 5) gli dice Gesù. Zaccheo scende dalla pianta su cui era salito, perché era un po’ basso (precisione nel linguaggio: si dice portatore di non altezza, scusate) e, pieno di gioia lo accoglie in casa sua.  
All’accorata richiesta d’aiuto («Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente»), Cristo risponde con la sollecitudine («Verrò e lo guarirò»). 

Il centurione, però, non è Zaccheo. La risposta che fornisce al Maestro è meravigliosamente spiazzante, tanto da essere finita con l’essere diventato una parte liturgica presente ad ogni celebrazione eucaristica: 

«Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa». 

Come tutto ciò che si ripete nel tempo, anche questa frase rischia di subire il logorio del tempo e della reiterazione, spesso distratta. Nel ritornarci alle orecchie, il rischio è che diventi simile al ronzio di una zanzara, che, sulle prime, risulta fastidioso, poi, ti ci abitui e ti fa compagnia, ma non perché tu l’abbia apprezzato, solo perché è diventato un sottofondo innocuo, a tratti tranquillizzante. Con il rischio, quindi, di perderne di vista la portata innovativa.  
Davanti a te hai Cristo, il rabbi di Galilea, quello di cui ormai parlano tutti: guarisce lebbrosi, ciechi, storpi, allontana spiriti immondi, addirittura in numero di migliaia (ricordate Legione, mandato nella mandria di maiali in Mc 5, 1-20?). Probabilmente se, di fronte alla malattia del tuo servo, hai pensato a lui, è per questo. Ne hai sentito parlare. Un ebreo. Uno di quella gente presso cui ti trovi per conto del popolo romano. Con usanze strane e pittoresche, forse, ai tuoi occhi. Con quell’ostinazione a credere in un solo Dio, senza porgliene accanto nessun altro. Di fronte alla malattia e al dolore, però, non sei riuscito a chiuderti alla possibilità che quel rabbi di Galilea potesse trovare una soluzione che tu non conosci. Ma ti presenti a Cristo con il tuo stile, con il tuo modo di fare. Tradisci l’appartenenza ad una categoria, la fedeltà ad una missione, l’abitudine ad obbedire, all’interno di un gruppo di potere militare. E rinunci. Rinunci all’avida e arida curiosità di un incontro con la “celebrità” del momento: con la speranza politico-militare di un certo mondo giudaico, con la sorpresa degli oppressi, con il terrore del potere sacerdotale e levitico, che si vedeva messo in discussione nel prestigio e nell’autorità dal figlio del falegname.  

Rinunci ad una curiosità frivola. Ma quella rinuncia è invito all’essenziale. Quella cortesia, quasi, di non voler disturbare, si accompagna alla consapevolezza tenace di aver fatto l’azzardo giusto, nel ricorrere a quello strano rabbi di Galilea, osannato da molti, ma temuto da altrettanti. È la fede che non serva la sua presenza visibile agli occhi: se il suo potere viene davvero dall’alto, se la sua parola è capace di essere il Verbo che crea, non sussistono più distanze geografiche, non ci sono mura od ostacoli d’altro tipo che possano intromettersi ed impedire l’adempimento di una Parola che salva.  

E questa fede, straniera, si fa strada, con eleganza, nel Vangelo, insieme con la sagacia della mamma-leonessa cananea (Mt 15, 21-28) e del samaritano, ex-lebbroso, grato (Lc 17, 11-19).  
Piccoli sprazzi di generosa umanità, che ci regalano un Cristo capace di guardare in profondità il cuore dell’uomo e – persino – di lasciarsi stupire di fronte alla propria creatura, per come reagisce alle avversità, per come – ostinatamente, pur tra mille errori – ricerca quel Dio a cui dà mille nomi, quando si culla nell’illusione di poterne fare a meno. Perché, come ebbe a dire  F. M. Dostoevskij: «L’uomo non può vivere senza inchinarsi dinanzi a qualcosa; un uomo simile non sopporterebbe se stesso e nessuno lo sopporterebbe. E chi nega Iddio, finirà coll’inchinarsi dinanzi a un idolo di legno o d’oro, o magari a un idolo astratto. Sono idolatri, non atei: ecco come bisogna definirli».  
Questa è la natura dell’uomo. Ricerca qualcuno a cui appartenere. Nella sua contraddizione, ricerca la libertà, ma la confonde con l’autonomia e, quando non sboccia la fede in Dio, finisce, consapevole o meno – a scimmiottarla. Pur di balbettare qualcosa sul senso della vita, prova a parlare di Dio, senza dire Dio, dopo aver cercato di togliere Dio dalla propria vita.  

La speranza, però, ci viene dalla seconda lettura, perché 

non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano (Rm 10, 12).

La speranza è che – come direbbe don Milani – Dio “non si formalizzi”, ma sappia leggere anche tra le righe delle bestemmie e delle blasfemie quotidiane che credenti e non credenti, ignari o consapevoli, gli offriamo, la nostra ricerca affannata e balbettante, del Suo amore che ci schiude le porte della vera vita. 


Fonte immagine: Sketchfab
Rif. letture festive ambrosiane, nella V domenica dopo l’Epifania, anno C

In quel tempo. Quando il Signore Gesù fu entrato in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva: «Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente». Gli disse: «Verrò e lo guarirò». Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa». Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti». E Gesù disse al centurione: «Va’, avvenga per te come hai creduto». In quell’istante il suo servo fu guarito.

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