«Chi come Dio?»
“Chi come Dio?”: questo il significato del nome Michele, l’arcangelo guerriero con la spada in mano, che, nella Bibbia, vediamo muoversi, a capo delle sue schiere, a servizio di Dio e della sua causa e , nella devozione popolare, mantiene il suo fascino, in particolare presso il popolo irlandese, compreso quello immigrato e successivamente stanziatosi negli Stati Uniti.
Se, per Michele, voler assomigliare a Dio è sintomatico di superbia e di vanagloria, del tentativo (vano e infruttuoso) di sostituirsi al Creatore, non accettando il proprio ruolo di creatura, amata e benedetta dal Creatore.
Gradito a Dio
Nel brano di Isaia (Is 56, 1-8), scopriamo che, per essere graditi a Dio, non è necessaria una particolare stirpe e neppure l’adesione a quelle norme di purità tanto vincolanti per il popolo ebraico. In una pagina sconvolgente per la concezione di purità rituale di quell’epoca, la figura dell’eunuco (spesso, osteggiato e svilito per la sua scelta, più o meno spontanea a seconda dei casi, di rinuncia ad una fecondità procreativa) è oltremodo rivalutata, all’unica condizione di allineare il proprio sentire a quello di Dio, di compiere ciò che a lui è gradito. In fondo, proprio qui risiede il nucleo centrale dell’amore: domandarsi cosa possa essere gradito all’altro e fare il possibile per realizzarlo. Con genuina spontaneità e sincera volontà di amare in modo totale e disinteressato.
Il male che si insinua
«Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me»
Compiere il bene non è affatto un’opera scontata e agevole, come potrebbe apparire a prima vista. Come dimostra il profondo, ma, al contempo, problematico brano di Paolo (Rm 7, 14-25a), aderire alla volontà di Dio richiede uno sforzo, una fatica personale, che richiede di oltrepassare il semplice desiderio, adoperandosi, in prima persona, per rendere concreta la visione di bene iniziata da un’idea positiva e volenterosa. Passaggio indispensabile e ineliminabile, eppure condizione insufficiente alla piena realizzazione del bene.
La ricerca del bene, il rinvenimento del male
Chi, tra di noi, può dire di cercare di compiere il male perché è questo che cerca? Anche chi è consapevole di compiere un illecito, un reato, qualcosa di contrario ad una leggere morale, civile o religiosa, in genere ha di fronte a sé il tentativo o l’obiettivo di un bene, magari limitato e distante dal bene comune, come potrebbe essere anche solo il proprio benessere o quello della propria famiglia. Ecco perché si può dire che sia raro che l’uomo cerchi il male “di per sé”; al contrario, è assai frequente ritrovarsi nell’esperienza descritta dall’Apostolo.
Il rischio della deresponsabilizzazione
È tuttavia necessario rilevare un rischio concreto, in questa constatazione, vale a dire quello di ritenersi assolutamente innocenti e coinvolti nel male solo dall’esterno, quasi si trattasse di un principio sostanziale[1], che si oppone a Dio e si impone all’uomo, come qualcosa su cui non ha alcun potere e su cui, conseguentemente, non può esercitare la propria libera volontà.
Lo straniero riconoscente
Come nel Primo testamento troviamo riferimento agli eunuchi, quasi sempre di origine esterna al popolo d’Israele, anche nel Secondo possiamo notare la presenza di un personaggio di primo piano, estraneo al giudaismo.
Samaritani. Gli ebrei sbagliati. Che pregano altrove. Con una Scrittura diversa. Eppure, proprio uno di loro, stavolta, in silenzio, sale in cattedra. Si fa maestro, senza pretendere nessuna nomina. Con il solo, semplice esempio. Buono.
Torna indietro e ringrazia. Tutto qui? Eppure, fu l’unico a cui venne in mente di farlo, mentre gli altri si preoccuparono unicamente della purità rituale[2], senza ritenere rilevante la gratitudine dovuta al guaritore di Nazaret. Fu l’unico a ritenere importante perdere tempo per ringraziare, insegnamento prezioso che, travalicato il suo tempo, ci raggiunge, sollecitandoci ad una comprensione sostanziale della gratitudine come riconoscimento di quel legame imprescindibile che ci lega non solo al nostro Creatore, ma a ogni fratello. È con gli altri che ci scopriamo davvero, che possiamo migliorarci. È nella relazione che si definisce la mia persona, senza la quale io stessa non mi posso percepire in pienezza.
Un Dio insaziabile
«Io ne radunerò ancora altri, oltre quelli già radunati» (Is 56, 8)
L’immagine del raduno, presentata da Isaia, richiama la figura del samaritano grato, che emerge dal Vangelo. Una moltitudine, un gran numero di persone: tutte convocate, per un medesimo fine. Nonostante ciò, Dio sembra sempre insoddisfatto. Trova, di volta in volta, di tempo in tempo, il modo di far emergere la necessità di allargare la tenda, di spostare un po’ più in là i pioli che la sorreggono, per far entrare qualcuno in più, che abbia buona volontà e desiderio sincero di ascolto.
Nessuno è straniero
Agli occhi di Dio, nessuno è straniero. Pur leggendo, nella Scrittura, storie di elezione particolare, in Dio la scelta di uno non è mai l’esclusione di qualcun altro. In quanto in relazione con Lui dal principio come creature e come (potenziali, oppure effettivi[3]) figli nel Figlio[4]. In forza di ciò, nessuno, quindi, può dirsi straniero[5], cioè estraneo al pensiero ed alla cura di Dio. Questo pensiero spinge ad una gratitudine non solo verso Dio, ma anche – parlo per esperienza personale – nei confronti di tutti quegli stranieri che non sono mai stati estranei, di tutti quei “lontani” che hanno saputo farsi vicini. In un parola: nell’esperienza che, persino nei luoghi e nelle persone che possono sembrare più improbabili, si può trovare un’eco dell’amore di Dio, talvolta persino più forte di quello che trasmettono i luoghi più ufficiali.
Rif. Letture festive ambrosiane, nella VI domenica dopo l’epifania, anno C
Fonte immagine: Scuola e cultura
[1] Sulla scia del pensiero dualista che, nel tempo, ha puntellato la storia occidentale sotto vari nomi (manichei, catari)
[2] A questo fa riferimento l’ingiunzione di Gesù, compiuta nei riguardi di tutti e dieci i lebbrosi, di andare a mostrarsi al sacerdote. Poiché la lebbra provocava, per il malato, una situazione di impurità che lo allontanava dalla comunità sinagogale, non bastava la guarigione, per rientrarvi. Essa doveva essere, infatti, ufficialmente attestata dal sacerdote, testimone e custode della purità cultuale.
[3] A seconda della presenza, o meno, del Battesimo
[4] Vd. Rm 8,15
[5] Per dirla con san Paolo: non esiste più la distinzione tra “giudeo” e “greco” (Gal 3,28-29)
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