Guardando alla ricchezza offerta dalla prima lettura, un paio di immagini sono particolarmente evocative.
La prima richiama l’opera d’arte, che noi siamo e di cui Dio stesso è artefice: «Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani» (Isaia 64, 7). Innanzitutto, troviamo un’affermazione di grande profondità ed importanza, teologica ed antropologica: Dio è nostro padre, noi siamo suoi figli. Per antonomasia, si propone quindi un rapporto evidentemente asimmetrico, ma basato sulla gratuità. Dio ti ama per un unico motivo: sei suo figlio. Ne ha miliardi, sparsi, nel mondo. Eppure, ciascuno è, per Lui, come se fosse l’unico. E ciascuno è un’opera d’arte, con le caratteristiche proprie del lavoro artigiano, per cui anche le imperfezioni rappresentano – in realtà – un valore aggiunto. Non in sé, beninteso, bensì in quanto garanzia dell’impareggiabile pezzo unico di cui esse fanno parte. Non ne rappresentano, quindi, mai, in nessun caso, il “tutto”, ma – sempre – un aspetto soltanto, che non potrà mai cancellare tutti gli altri. Un servo potrà essere allontanato, se non risponde alle aspettative. Ma un figlio rimane sempre figlio, qualunque cosa faccia, qualunque possa essere la macchia indelebile che si posi sulla sua anima. Tutti siamo chiamati, ciascuno secondo il proprio stato di vita, a diventare padri e madri. Ancor di più, tutti siamo figli. Non sempre sperimentiamo di essere amati per il nostro essere figli. Dio, però, attraverso la Sua Parola, ce lo ricorda: non serve altro, non desidera altro per amarci, se non che ci lasciamo amare. L’amore precede qualunque colpa, precede il pentimento e ne diventa causa: in un cuore che ama, so di poter essere indifeso, di poter essere inerme, di gettare ogni maschera e trovo, quindi, il coraggio di guardare in faccia anche le parti più torbide della mi anima, quelle dove Satana sa di trovarmi più debole, e in cui mi fa cadere più spesso.
Anche gli assassini di Willy sono figli. Anche l’assassino di don Roberto è un figlio. Dire questo non significa negare l’atrocità e la disumana ferocia di due omicidi che hanno colpito le nostre coscienze ed interrogato le nostre comunità, costrette a guardare negli occhi, da vicino, il Male più nero. Rappresenta, piuttosto, quell’altra faccia della medaglia da cui non possiamo distogliere lo sguardo se vogliamo almeno provare a dirci cristiani. Nessuna sentenza, neppure il ripristino della pena di morte, potranno mai riportarci in vita due uomini di cui abbiamo scoperto, nella morte, le virtù. Perché, però, non proseguire nella scia di luce che le vittime hanno lasciato dietro di sé? Perché non confidare che Dio possa toccare i loro cuori e far scaturire da un male così difficile da digerire un bene altrettanto inatteso, possibile solo per la Grazia che viene da Dio, capace di scrivere dritto sulle nostre stortissime esistenze? Non sarebbe questo un tentativo migliore, piuttosto che riempire le pagine social di insulti, che non servono né alle vittime né ai carnefici, ma – forse – solo a sfogare la nostra frustrazione?
Nessuno è orfano. Se anche lo fosse, anch’egli ha un Padre in cielo, che l’ha disegnato sul palmo della mano, per avere il suo nome sempre davanti agli occhi. Questo è Dio, per ciascuno di noi. Qualcuno che si ricorda il mio nome, la mia faccia, la mia storia, in ogni momento della mia vita e che mi chiama “figlio” o “figlia”, anche quando preferisco comportarmi da servo e allontanarmi da quel Padre, che, dall’eternità, mi ha forgiato come un gioiello prezioso.
La seconda immagine richiama, invece, la distruzione del fuoco, portato dall’uomo attraverso incendi che tutto devastano, vanificando il lavoro dell’uomo e creando apprensione ad intere famiglie: «Il nostro tempio, santo e magnifico, dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco; tutte le nostre cose preziose sono distrutte» (Isaia 64, 10). Quest’immagine ci fa soffermare su un’altra pagina dell’attualità: i roghi della California e dell’Oregon (USA), che ancora devastano quelle zone. La mano che appicca un fuoco non è meno assassina di una che impugna un coltello. Devastando ettari di bosco, distruggendo vita animale e vegetale, in breve l’incendio arriva a lambire le case, a divorare ogni cosa. Non sono il tempio, costruzione predisposta al culto, ma anche le cose sono “preziose”. Preziose, perché frutto del lavoro, perché luogo di ristoro a cui fare ritorno. È sempre difficile decidere di disfarsi di qualcosa. Ce ne accorgiamo ad ogni cambio stagione. È inevitabile “metti che (completare a piacere, con fantasia: ingrasso, dimagrisco, capita un’occasione galante, riprendo a fare sport… eccetera)”. Proviamo ad immaginare cosa significhi a lasciare non qualcosa, ma tutto, senza preavviso, per la necessità di scappare in fretta, per salvare almeno la pelle. Dover dire addio non solo alla casa di famiglia, ma alle foto, ai ricordi, ai regali, alle mura che ti hanno visto crescere, o hanno visto crescere i tuoi figli. Il rapporto che abbiamo con le cose è importante in quanto riflesso di una relazione: un oggetto aumenta esponenzialmente il proprio valore ai nostri occhi proprio in virtù del suo rapporto con una persona, che ci ricorda. Un segnalibro ha valore economico irrisorio: diventa incommensurabile, se rappresenta il regalo di un amico o di un parente defunto, in quanto diventa veicolo per riportare alla memoria i bei momenti trascorsi assieme. Di fronte all’inevitabile dispiacere, scopriamo – al contempo – il valore di quella rinuncia-forzata, nella quale siamo costretti a passare, come oro nel crogiolo, accettando di perdere qualcosa, per ritrovare i beni più importanti: la vita e gli affetti, di fronte ai quali qualunque oggetto, per quanto carico di valore sentimentale, impallidisce.
Il Vangelo ci invita a domandarci cosa ci spinga – davvero – alla sequela di un Messia perennemente in cammino.
«Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» puntualizza Cristo, con una mira da cecchino. Tornano alla mente le tentazioni, in particolare, la prima (Mt 4, 3-4), in cui Satana chiede a Cristo di spettacolarizzare la propria predicazione, risolvendo i problemi dell’uomo o impressionandolo con miracoli strabilianti. Cristo rifiuta questo, una volta per sempre. Non perché non sia interessato ai problemi dell’uomo. Bensì, perché non è solo il pane il problema dell’uomo. A Cristo interessa l’uomo, nella sua totalità, perché è venuto a redimerlo in tutta la sua totalità. Dio si offre all’uomo, in corpo, sangue, anima e divinità, per sottolineare che nulla di Lui è andato sprecato, affinché nulla, di noi, rimanesse irredento.
Il discorso del Maestro, pur colpendo sicuramente nel vivo i discepoli, al contempo, li attrae. L’uomo – nessun uomo – vuole la morte. Tutti noi, a qualunque età, guardiamo avanti, al futuro, facciamo progetti, vorremmo non incontrare mai la morte. Questa parola, vita eterna, è come balsamo che lenisce la nostalgia di Dio, radice di ogni dolore che si origina nel cuore dell’uomo. Rappresenta una speranza, una possibilità. E li spinge a chiedere, a voler capire, ad approfondire, nonostante siano stati colpiti nella propria superficialità.
Cristo nutre, quindi la loro curiosità, ponendosi come colui che dà la vita. Ciò non corrisponde affatto alla loro concezione di Dio e – ogni tanto – neppure a quella che abita il nostro cuore, in cui siamo convinti che la nostra relazione con Dio possa dipanarsi in una sorta di contrattazione commerciale in cui ciascuno riceve, meritocraticamente, a seconda di quanto abbia “concesso” a Dio. In realtà, questa visione non è biblica, ma un rigurgito di paganesimo, giunto fino a noi. Dio non fa mai eguaglianza. Se qualcuno offre cinque pani e due pesci, Lui li moltiplica per più di cinquemila persone. A Pietro e i suoi soci, che Gli prestano una barca per la predicazione, Lui restituisce una pesca miracolosa, in pieno giorno. Qualunque cosa doniamo a noi, Lui ce la restituisce, sempre moltiplicata per cento. A Cristo basta ricevere la nostra piena disponibilità: ci penserà Lui a troverà un modo creativo con il quaòe noi potremo essere utili, nella costruzione del Suo Regno.
Cristo si presenta non solo come dono (“pane disceso dal cielo”), ma come Dono Totale, per l’umanità e per ciascun uomo (“dà la vita al mondo”). “Dare la vita al mondo” riporta alla memoria anche la potenza della Parola che, dalla Creazione primigenia, si riverbera in ogni nuovo giorno, nel rinnovamento di tutto il creato.
Ecco, quindi, che segue l’entusiastica esclamazione dei discepoli: «Signore, dacci sempre questo pane».
«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» è la chiosa del Cristo, che richiama la tentazione di Satana, ma la ribalta. Non: «Vi fornirò cibo», ma: «Io-Sono il vostro cibo, per sempre».
Attestazione d’amore, assoluto. Senza-fine.
Rif: letture festive ambrosiane, nella IV Domenica dopo la Decollazione (anno A): Is 63, 19b – 64, 10; Eb 9, 1-12; Gv 6, 24-35
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