Jim Caviezel The Passion

La prima lettura è tratta dal libro del profeta Daniele, che scrive in contemporanea con l’aspro scontro con il re della Siria Antioco IV Epifane. Quest’ultimo, preso il potere nell’anno 175 a.C., preoccupato per la vastità dell’Impero, decide di uniformare tutte le regioni secondo la cultura ellenista, provocando la ribellione ebraica: mentre per altre popolazioni tale scelta non è problematica, per il monoteismo giudaico, essa suona, invece, tale e quale una bestemmia. Il libro di Daniele, essendo contemporaneo alle persecuzioni del II secolo a.C. (al contrario del libro dei Maccabei, in cui troviamo i racconti delle persecuzioni e delle lotte, scritte però a conclusione di esse), colloca gli avvenimenti all’epoca del re Nabucodonosor.
È in questo contesto che nasce la bellissima preghiera di Daniele, che, dopo aver ricordato la miracolosa fuga dall’Egitto (sempre nel cuore di ogni buon israelita) domanda soccorso in una situazione difficile.
Quell’ Ascolta, nostro Dio suona immediatamente come controcanto all’invocazione Ascolta, Israele (שְׁמַע יִשְׂרָאֵל, Shemà, Israel) e fa precipitare subito la preghiera in un contesto di sentimento affettuoso: nel riconoscimento reciproco, tra Dio ed il proprio popolo. Curioso, alle nostre orecchie, ma teologicamente perfetto, quel per amor tuo: in nome di quale amore chiedere ascolto a Dio, se non il proprio, dal momento che Dio è l’Amore assoluto?
All’interno di questa preghiera c’è una frase d’importanza colossale, che struttura sia la forma che il contenuto di ogni preghiera esistente: «Noi presentiamo le nostre suppliche davanti a te, confidando non sulla nostra giustizia, ma sulla tua grande misericordia» (Dn 9,17).
Ancora oggi, questa puntualizzazione ci edifica, nel senso letterale che ci “rende strutturati”. A causa dell’istinto egocentrico, penetrato nel profondo del nostro essere con il peccato originale, siamo – spesso – portati a presentarci a Dio come ad un nostro debitore: qualcuno, cioè tenuto, non solo a fare qualcosa per noi, ma anche a farla come noi vogliamo sia fatta.
Pensiamo sia ovvio essere ascoltati, nelle nostre preghiere e, quando ciò non avviene, lo riteniamo un’offesa personale, perché pensiamo sia un’ingiustizia. Ma chi può davvero ritenersi giusto, essendo onesto con se stesso? La realtà è che noi siamo chiamati a confidare nella misericordia di Dio, perché se aspettassimo di essere degni delle aspettative di Dio sull’uomo, non potremmo mai presentarci a Lui, perché, come Padre esigente, le sue aspettative su di noi sono alte, ma vi corrisponde altrettanta pazienza, di fronte alla consapevolezza che, accanto alla nostra grandezza, convive la nostra miseria.

La misericordia è all’opera anche nel vangelo di Marco che la liturgia ci propone. Gesù sta componendo il gruppo dei suoi apostoli: finora ha invitato una coppia di fratelli, mentre erano al lavoro sulle loro barche (Simone e Andrea)
Ora, Gesù, ancora lungo il mare di Galilea, incontra Levi, figlio di Alfeo che sta lavorando al banco dei gabellieri: al sentirsi chiamato, anche lui, lascia tutto e lo segue.
A colpire, in queste pagine di chiamate, è sempre l’immediatezza, che non ci è molto congeniale: in genere, noi preferiamo fare un accurato calcolo di costi/benefici prima di decidere di impegnarci in modo definitivo.
La chiamata di Matteo, però, è diversa dalle altre. Sicuramente, anche i pescatori non rappresentavano l’ideale del buon israelita: già il fatto di lavorare, prevalentemente di notte, doveva procurare, ai benpensanti, non pochi sospetti sulla loro integrità morale. Tuttavia Levi (Matteo) fa di peggio: non solo fa un mestiere inviso a tutti (alzi la mano chi paga le tasse volentieri!), ma lo esercita in favore degli occupanti, degli invasori. In aggiunta, la categoria era ben nota per avere il “vizietto” di alzare le quote, così da trattenerne una parte per sé, rubando ai propri concittadini per “arrotondare” le proprie entrate (niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire…). Insomma, il risultato di tutto ciò era un più che comprensibile fastidio nei confronti dell’intera categoria, di cui Levi non era esente (nonostante i Vangeli non ci informino se fosse ladro come Zaccheo, oppure inviso solamente per il luogo comune sulla categoria). In ogni caso, allo sguardo di Gesù che si posa di lui, Levi capisce di essere visto per quello che è, si sente scrutato nel cuore, in un modo completamente diverso da quello con cui tutti gli altri lo guardavano. Capisce, forse, in quello sguardo, di poter essere diverso. Migliore.
Inizialmente, il Vangelo pare quasi passare distrattamente oltre questi dettagli, su cui non si sofferma, durante la vocazione di Matteo. Tutto ciò emerge però – prepotentemente – durante un successivo pasto, che Gesù consuma con i commensali più svariati. Ecco che, in quel momento, prende forma e voce la domanda che albergava da tempo nei cuori: «Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?» (Mc 2,16).
L’imbarazzo dev’essere palpabile. Si rende quindi necessaria una risposta: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). Un sentimento d’ingiustizia ci pervade, al sentire queste parole, se non abbiamo imparato a toglierci dal centro del nostro piccolo mondo, di cui ci sentiamo i re.
I primi ad essere interpellati sono gli ultimi nella società, perché, spesso, sono quelli maggiormente in attesa di un riscatto. Non c’è speranza per noi?
Non finché non trasformiamo la certezza di salvarci da soli in fiducia di poter essere salvati. È in quel momento che ci rendiamo conto che anche noi, che magari non abbiamo alcuno stigma sociale, abbiamo tante cose di cui non possiamo andare fieri, tanti pensieri densi di rancore od invidia, tante parole, dette o pensate, che denotano poca carità e che se Gesù ci dicesse, come ai discepoli «di che discorrevate lungo la via?» (Mc 9,33), anche noi ci trincereremmo in un silenzio di cocente imbarazzo.
Anche noi siamo peccatori che attendiamo salvezza, malati che hanno bisogno di guarire.

In ultimo, anche l’epistola, mette in luce il cambiamento che può avvenire, a fronte dell’opera di misericordia.
San Paolo, parla di se stesso, al passato come bestemmiatore, persecutore e violento; al presente, la definizione è oltremodo ardita: forte, che, nella sua ambiguità, può essere inteso in senso fisico oppure morale. E, in verità, conoscendo la storia di Paolo e ciò che ha subito a causa del Vangelo, fino al martirio, possiamo attribuirglieli ambedue.
La domanda è: qual è la caesura? Che cosa l’ha fatto passare da due atteggiamenti tanto antitetici?
Nel mezzo, come lui stesso afferma, c’è la misericordia di Dio, che ha saputo vedere in lui uno “strumento eletto” (come è chiamato in At 9,15 ) per l’evangelizzazione dei Gentili (i pagani).

Far memoria di questi episodi ci richiama a non lasciare che il peccato, la fragilità, la debolezza, la tristezza, la gravità delle nostre occupazioni ci schiaccino.
Dalla fiducia regalata possono avere origine cambiamenti inaspettati e trasformazioni che trascendono la comprensione umana.
Solo nell’amore, può essere ri-creato ciò che il peccato aveva frammentato.

Rif. Letture festive ambrosiane, nella penultima domenica dopo l’Epifania, «della divina clemenza», Anno C (Dn 9,15-19; Sal 106; 1Tm 1,12-17; Mc 2,13-17)


Fonte immagine: guardacon.me (blog)

Fonte: Parole nuove, don Raffaello Ciccone

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