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Quello che ritroviamo questa domenica è un po’ un leit-motiv dell’Antico Testamento. Nonostante Dio si riveli fedele nel tempo e riproponga ad Israele la propria alleanza, il popolo, al contrario, approfitta delle situazioni di benessere per ritenere inutile il patto con il Signore ed allontanarsi da Lui. I profeti ci abituano a chiamare questo tradimento della fiducia di Jahvè prostituzione.

«Ma neppure ai loro giudici davano ascolto, anzi si prostituivano ad altri dèi e si prostravano davanti a loro». (Gdc 2, 16)

Facendo leva sulla prostrazione (emblema della sottomissione del suddito al re e del fedele a Dio), che, tra l’altro, in italiano, ha anche una certa assonanza, è forse più facile capire perché sia utilizzato un termine tanto forte. Per un ebreo, non è questione marginale, la fede in Dio. Pienamente identificativa della propria appartenenza di un popolo, è molto più di un aspetto culturale e cultuale.
Per noi, è forse più difficile entrare in comunicazione con tutto ciò. La nostra partecipazione alla Messa è – spesso – velleitaria e – a malapena – ricordiamo cosa rispondere e quando alzarci in piedi; inginocchiarsi è diventato ormai un optional anche per i più giovani ed atletici. Non si tratta di piccineria: dal momento che siamo una sintesi di anima e corpo, rinunciare deliberatamente che il corpo partecipi pienamente alla celebrazione, significa – necessariamente – accondiscendere ad un coinvolgimento parziale del nostro essere.
Non è bastata la conquista di Canaan. Non basta la fedeltà imperitura di Dio al proprio popolo, per evitare che questo si allontani.
A pensarci bene, però, è così anche per noi. Ci è facile allontanarci dalla via del bene, nonostante i continui richiami. Il Maligno è subdolo e, travestendosi da bene, ci fa spesso cadere nel suo tranello. che, probabilmente, spesso, può essere ricondotto all’incapacità di dire con la vita la fede che professiamo con le parole.
«Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,36) è la richiesta che si sente fare il Maestro. Probabilmente, tra sé e sé, deve aver pensato: “Ma questi non han proprio capito nulla!”. È proprio la logica ad essere sbagliata. La venuta di Gesù rende esplicito che i progetti di Dio non seguono gli schemi del mondo, basati sul successo, sulla gloria, sul potere e sul denaro. Questa richiesta, al contrario, rende evidente che i due “figli del tuono” pensino di poter vantare una sorta di “primogenitura” sul Regno di Dio, come se si potesse prenotare i posti migliori, per contrastare un eventuale overbooking. Su questo aspetto, altrove, Gesù è inequivocabile: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto» (Gv 14,2), garantendo come non ci sia il rischio, come durante le nostre frenetiche giornate, di perdere il posto.
Cristo si vede quindi costretto a fare un ripasso veloce ma intenso, in pieno stile – maturità:

«Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 43 – 45)

Qualunque sia il posto in cui siamo chiamati a vivere, non è mai facile vivere questo Vangelo. È arduo trovare il bilanciamento corretto tra l’affermazione di sé e l’autocommiserazione, erroneamente scambiata per (falsa) umiltà. Lo spirito di servizio non è sminuirsi, in una sorta di pratica masochistica. Richiede, al contrario, la maturità di non rincorrere l’esaltazione ed il successo personale, ma, piuttosto, avere la maturità di una consapevolezza di sé che ci porti a ricercare nel successo del gruppo il nostro successo personale. Accantonata la smania di emergere, potremo gustarci la bellezza di un successo condiviso!

Rif: letture festive ambrosiane nell’ottava domenica dopo Pentecoste


Fonte immagine: Pixabay

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