Nella sua spelonca, come un antico mago, Satana si divertì a scomporre il corpo dell’uomo nei suoi tessuti e nelle sue fibra, ne spiò ogni nervo, ne scrutò le ossa e le midolla; volle che un lembo del suo inferno si trapiantasse quaggiù nella nostra terra di vivi. Gli riuscì di trasformare la notte in un forno maledetto dove avvoltolarsi fino all’alba contando ore lunghe come secoli, volle che l’uomo si vedesse coperto giorno dopo giorno di bubboni e piaghe, che sentisse le proprie ossa trapassate di lance, frantumate da seghe, addentate da invisibili cani. Volle che l’uomo vedesse colare dalla propria pelle secrezioni immonde e ne percepisse il fetore. Il capolavoro è compiuto, “signore e signori ecco a voi il lebbroso”: terra di confine tra il giardino della morte e la fatica del vivere umano, il cadavere ambulante, lo scomunicato per eccellenza. Perché quella pelle puzzolente e fetida tutti la riconosceranno, sin dai primi righi dell’Antico Patto dell’Alleanza: “porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo!” (Lv 13,45).
Il Vangelo pullula di lebbrosi: tra i bianchi borghi della Palestina e il silenzio superbo di chi non capisce la Sue parole, tra le parabole del Nazareno e le martellate della Crocifissione, campeggia il loro grido agghiacciante e premonitore: “allontanatevi, siamo infetti!”. Nessuno si avvicina loro, la pietà cristiana muore nel raggio di qualche metro dalle loro piaghe. Resta solo Lui, il Vasaio nelle cui mani il fango può ritrovare forma, riacquistare bellezza e definizione, luce e calore. Lui non scappa, non fugge dalle sue responsabilità, s’addentra nel grido di dolore per cercarne l’origine e il battito. E se Lui resta – mentre tutti fuggono – il lebbroso stavolta s’avvicina lui (Mc 1, 40-45). Non l’accompagna nessuno: è un animale che puzza. L’unico caso nel vangelo di Marco in cui un ammalato s’avvicina da solo: con umiltà, con fiducia estrema, con cautela. Non c’è l’astuzia di chi vuol rubare a Gesù l’ennesimo miracolo, l’eloquenza ricca di lamenti del dolore, la mimica dell’implorazione in un volto che ormai è soltanto una spugna. Allontanato dalla società e divelto nel fisico, gli rimangono due possibilità: il miracolo, il salto nella vita, la riabilitazione sociale o restare così com’è, con tutto il male del mondo ficcato dentro di lui sino all’ultimo giorno della sua vita. “Se tu vuoi, puoi guarirmi”. Lui lo punta dritto negli occhi: sente il cuore che batte, la lebbra pronta a sgretolarsi, il cuore umile che riconosce in Lui l’autore della vita: “lo voglio, guarisci!”. Tra queste due frasi non si muove foglia, bestie e uomini tacciono. Solo la mano di Cristo s’allunga, compie il breve viaggio entro quella spanna d’aria, scioglie in un abbraccio la paura e la pietà.
A primavera due semi si trovavano uno a fianco dell’altro. Il primo disse: “Voglio crescere e spingere le mie radici in profondità, fare spuntare i germogli sopra la crosta della terra, dispiegare le gemme come bandiere per annunciare la primavera, sentire il calore del sole sul volto, la benedizione della rugiada sui petali”. E crebbe. Il secondo replicò: “Ho paura. Se spingo le radici nel terreno, non so cosa incontrerò nel buio. Se mi apro la strada attraverso il terreno duro posso danneggiare i miei germogli. Se apro le gemme, una lumaca se le mangia. Se metto i fiori, un bambino potrebbe strapparmi da terra. E’ meglio aspettare finché ci sarà sicurezza”. E aspettò.
Una gallina che raschiava il terreno in cerca di cibo trovò il seme che aspettava. E subito se lo mangiò.
In ogni storia c’è il sintomo della lebbra: Satana è sempre al lavoro nella sua spelonca per disumanizzare la bellezza della Creazione. E’ il macigno della solitudine, della miseria, del menefreghismo, dell’anonimato, della disperazione, del peccato, della mormorazione falsa, della malizia spaventosa. Macigni enormi messi all’imboccatura dell’anima, che non lasciano filtrare l’ossigeno, che bloccano ogni lama di luce, che impediscono alle parole di essere feconde. Adesso devono tacere tutti, uomini e bestie, pure il lebbroso deve rientrare in città muto nelle parole e nei gesti. Cristo impone il silenzio: dalla mansueta tenerezza della guarigione passa con veemenza al fastidio, si scalda, ammonisce, intima di tacere perché la gente sta fraintendendo tutto, ieri come oggi. L’uomo ai Suoi occhi è sempre un diamante da sgrezzare.
E anche Dio ha il suo dilemma da sciogliere: come provare compassione e intervenire senz’apparire quel fantoccio assurdo che troppa gente porta oggi nel cuore? Mica un problema da poco, sopratutto per uno che si chiama Dio.