silenzio
Lui ch’era Re per davvero si fece simile a me, che nemmeno di me stesso sono re. Festeggiò i trent’anni così: «Prese un mantello, allacciò i suoi sandali, e disse alla madre una parola d’addio che non sarà conosciuta» (F. Mauriac). Pur essendo Figlio-di-Papà – «pur essendo nella condizione di Dio» – non entrò nel mondo farfugliando: “Lei non sa chi sono io!” Vi entrò a bassa voce, in punta di piedi, sottovoce: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio». Ai lacrimogeni di Satana, preferì le vesti smunte, i piedi scalzi della gente qualunque, in «una condizione di servo» (cfr Fil 2,6-7). Insomma, fece di tutto per non farsi riconoscere, Lui ch’era venuto al mondo perché tutti lo conoscessero. “Dio Potente”, l’acclamerà il coro dei fedeli, perché svuotato: leggero, dunque nella condizione più favorevole per spiccare voli verso l’alto, aiutare a spiccare voli in alta quota. La storia si alza.
È iniziata dal basso, dal punto più basso della geografia dei Vangeli, dagli scantinati delle acque. Iniziò laggiù in basso, perché nessuno potrà diventare un grande generale, se prima non è stato un semplice soldato: nessuno sarà nelle condizioni di comandare, se prima non ha imparato ad obbedire. Con quel gesto di-sotto, sorprese il mondo intero, fece infuriare Satana e tutti i suoi ambasciatori, ch’erano sul punto di rinfacciargli d’essere della casta. Lui – che per trent’anni si mise in testa di farsi uomo tutto d’un pezzo, che per trent’anni obbedì andando a lezione da mamma e papà – scelse di sorprendere tutti, si prese il diritto della sorpresa. Vide il mondo tutto in affanno, sentì le sue viscere rivoltarsi, si tuffò in mezzo per rimettere in sesto il mondo dal di-dentro. Fece come se fosse Lui ad essere in affanno: «Talvolta, quando si è nei guai, per uscirne – ha scritto Ken Follet – bisogna fare qualcosa di folle, di così inaspettato che il nemico resti paralizzato dalla sorpresa». Tutti paralizzati, quella volta: l’amico Battista, la folla ch’era tutta sozza di lordura, la Madre che capì solo di non aver capito granché. Quel pirlone di Lucifero, fregato dall’urto di quell’umiltà inarrestabile: che l’Uomo partisse da laggiù accese in Lui il sospetto che avrebbe dovuto sudarsi, lingua a terra, la sua agognata carriera di diavolo. L’Uomo – questo capì Satana – gliela avrebbe messa dura: non sarebbe stato prevedibile come lo saranno, invece, troppi di coloro che diranno d’andarGli appresso, costi quel che costi.
Non bastasse il basso, decise di scendere ancora: «Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera». S’inginocchiò, a somigliare ancor più a colui ch’è schiacciato dal peccato, crogiolato nella tentazione, pancia a terra. Sdraiato per terra – come lo sarà di tanti, truffati dalle piroette del Nemico – toccò il Cielo per accendere la musica, che sarà musica per gli orecchi sordi: «Tu sei il mio Figlio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». “Tu-sei” è tempo immediato, asserzione d’amore: l’attesa annullata da uno sguardo. “Figlio” è complemento di identità, complimento di proprietà: non più straniero, mi appartieni, hai già un pezzo di eredità. Eppoi sei “amato”: così, di brutto, ancor prima di sapere se tu mi amerai oppure no. Troppo facile aspettare la tua risposta, gioco io d’anticipo: «Non c’è da stupirsi che non ci sia nulla di più magico della sorpresa di essere amati: è il dito di Dio sulla spalla dell’uomo» (C. Morgan). Qualora non bastasse per cappottarsi dall’amore, il piede è sull’acceleratore, il cuore in rampa di lancio: «In te ho posto il mio compiacimento». Che Dio si compiaccia di me – “Son fiero di te, davvero tanto. Lo vado dicendo a tutti, mai ti mortificherò sul palcoscenico della storia” – è materia per una resa incondizionata. Andatevene, se ci riuscite.
Parole tronfie, son tutto tronfio per queste parole. “Chi pensi d’essere?” va chiedendomi la gente. “Sono figlio di Dio. Ho un’eredità pazzesca in tasca!” vado rispondendo. Pensano sia matto, arrogante, smisurato. Lo dicessi per davvero, sarei il più umile. Arroganza è dire: “Sono Dio”. Essergli Figlio è la dichiarazione d’inferiorità più esaltante. Per questo, Satana mi detesta: gli ricordo mio Padre.

(da Il Sussidiario, 12 gennaio 2019)

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». 
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Vangelo di Luca, 3,15-16.21-22).


Avvisi parrocchiali
«Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo». Quante volte, nel silenzio di una Chiesa, abbiamo sentito pronunciare queste parole. Un giorno, chissà se ricordiamo che giorno era, il sacerdote le pronunciò anche per noi: fu il nostro primo giorno da cristiani. Anche noi figli di Dio. Voluti e amati.
Sabato 12 gennaio 2019 – ne «Le ragioni della speranza» di A Sua Immagine (RaiUno, 16.10) – saremo a Betania, sulla riva destra del fiume Giordano. Qui Cristo stesso ricevette il suo battesimo dall’amico Giovanni. Fu un giorno di grande festa. È quasi impossibile stare qui e non ripensare al giorno del nostro battesimo 

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