stormo

Gentile Direttore, sono giorni che esco dal carcere con la mestizia nel cuore: un detenuto che si suicida lascia sempre uno strascico di domande irrisolte dietro di sé. Che ormai sia divenuta un’abitudine sentir parlare di suicidi in carcere, di clandestini che sbarcano sulle coste e di persone che muoiono sotto le bombe, ciò non toglie la gravità di gesti che chiedono una riflessione matura. La mia mestizia, però, affonda le sue radici altrove: in quello spazio pubblico e democratico di chi commenta nel sito del giornale gli articoli di cronaca. Uno spazio che spesso mostra come sia più facile sposare l’imbarbarimento del senso comune piuttosto che cimentarsi nell’elaborazione di un pensiero libero e liberante. Premetto che essere “parroco” di un gruppo di detenuti non significa assolutamente giustificare il male che qualcuno di loro ha commesso – il male non va mai giustificato, ndr – ma cercare di comprendere il perchè di un percorso che ad un certo punto ha deragliato. O, per lo meno, creare le condizioni favorevoli perchè una persona possa rientrare in se stessa e meditare sull’accaduto. Il che, come lei immagina, non è mai cosa semplice. C’è una parte di società che è stata ferita, a volte mortalmente: la comprensione di un delitto non può mai prescindere dalla considerazione della loro presenza, pena un’errata concezione della misericordia cristiana, quella che non cancella la giustizia. Consapevoli, anche, che un’amnistia o un indulto improvvisato arrecherebbero più danno che benefici ad una società se prima non fosse organizzata una rete di accoglienza all’infuori delle sbarre facendo diventare patrimonio comune uno stile maturo di riflessione anche su questa sfaccettatura fastidiosa dell’umano. Chi sbaglia è giusto che per un certo tempo stia in un luogo separato dalla società: ma, probabilmente, questo luogo non può essere il carcere com’è oggi.
Abita qui la mestizia del mio pensiero: constatare, di fronte alla complessità di un problema enorme come questo, l’acidità dei contenuti, la volgarità dei concetti, l’usura di luoghi comuni – “la chiave nel mare”, “la televisione dentro la cella”, “la galera da scontare a casa propria” – che impediscono una seria riflessione in merito. Con l’aggiunta di un fattore non trascurabile: certune affermazioni sono delle emerite sciocchezze che escono dalla bocca di chi ignora ciò che realmente è un carcere e ciò che vi accade al suo interno, dove una leggenda raccontata non necessariamente è una storia verificata. Riconosco l’impopolarità della mia riflessione: l’esasperazione della gente di fronte a gesti di delinquenza è anche la mia esasperazione, la fatica di un gesto di perdono è anche la mia, il linguaggio della rivalsa nemmeno a me talvolta è estraneo. Con una differenza, forse: la percezione che tali ragionamenti conducono ad un vicolo cieco. E’ facile commentare nascosti dietro un sito o in sacrestia: più arduo mettersi in gioco accettando di conoscere una realtà-tabù, sforzandosi di capirla. E’ semplice parlare di rieducazione, più complicato chiedersi il senso del rieducare un detenuto se poi trova una cultura maleducata ad attenderlo. Ha senso parlare di cammino in una civiltà se certe guide che sono a capo sono cieche? Come interpretare il fatto che certi detenuti chiedono l’espulsione e viene loro ostinatamente complicata? Perchè continuare a parlare del desiderio di svuotare le carceri quando l’indotto economico generato è così proficuo che nessuno vorrebbe cedere la sua parte? Si parla di “certezza della pena”: anche taluni di loro, dopo anni d’attesa, vorrebbero essere a conoscenza dell’entità e della fisionomia della loro pena. Le soluzioni, come vede, non sono sempre dunque facili come nel calcio-mercato o nei cruciverba.
Mi preoccupa, gentile Direttore, il ragionare per “luoghi comuni”, sopratutto in questioni di confine: è un percorso che blocca lo sviluppo stesso della coscienza, di un singolo come di una collettività. E, oltretutto, impedisce a troppa gente di rendersi conto che la traiettoria della sua vita viaggia più vicina al carcere di quanto potrebbe immaginare. Lei spesso accetta l’invito ad entrare nel nostro carcere: questa sua disponibilità le attesta quanto sia ostico ragionare con persone che abbiano un quadro di riferimento completamente diverso dal reale, sopratutto se costruito sul “sentito dire” delle leggende metropolitane. Forse aveva ragione Nelson Mandela quando scrisse: “la verità è che non siamo ancora liberi: abbiamo acquistato soltanto la facoltà di essere liberi”. Una libertà di pensiero che passa inevitabilmente anche attraverso la denuncia di un imbarbarimento culturale a cui approdano certi slogan che hanno attecchito, nel senso più botanico del termine, nel ragionare della gente comune. Con l’avvallo silenzioso di una certa chiesa, anche diocesana: un atteggiamento alquanto rischioso, dal momento che la Provvidenza sembra talvolta non avere nessun pudore.

don Marco Pozza
Cappellano del Carcere “Due Palazzi” di Padova

(da Il Mattino di Padova, 20 agosto 2013)

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