dongino

Come un arcobaleno sopra un campo arato: gli agronomi hanno confermato che il terreno non è marcio ma dopo l’aratura è pronto per una nuova seminagione. Ancora giorni e stagioni, ancora tempo e raccolti. Don Gino Temporin è stato assolto: il fatto non sussiste. E’ il Buon Natale più dolce per la mia Diocesi, per i miei confratelli preti, per quell’angolo di memoria che è il Seminario. C’è stata un’aratura pesante ma ora è tempo di uscire: pronti per una nuova semina. A quell’accusa infame e infamante pochi ci hanno creduto: pure il web, solitamente armato di ghigliottina e pressapochismo, in questi mesi ha taciuto, forse si è interrogato. Oggi è Natale, con qualche giorno di anticipo: ci è stata ridonata la speranza. E’ stata riconosciuta l’autorevolezza di un educatore che nel breve spazio di sei mesi è riuscito a rendere credibile l’insegnamento scolastico di una vita: a qualsiasi rango sociale una persona appartenga, l’esempio resta la miglior forma di autorità. L’esempio di chi, stretto e costretto dalla contingenza, ha saputo reggere i contraccolpi con la dignità sul volto, la compostezza dei gesti, il silenzio che in alta quota s’addice ai passaggi arditi. Quell’educatore – capace di scorgere i percorsi segreti di Dio nell’esistenza di giovani storie – oggi vede riaccreditato il suo Volto di fronte al giudizio della storia. Un augurio, che ci reca in allegato due “consigli per l’uso”.
In un processo c’è chi vince e chi perde. Ad entrambe le parti, però, viene lasciata in dote un’eredità: la cura delle parole. Esse non hanno solo i loro significati propri, ma recano nel loro grembo un’infinità di assonanze, richiami, echi che nessuno può più arrestare quando entrano in circolo nell’immaginario della gente. Le parole sono armi, dentro ogni sillaba c’è possibilità di vita e di morte, dentro il più misero dei segni di punteggiatura c’è il mistero dell’iniquità e della salvezza. Imparare ad usare le parole è apprendere le “istruzioni d’uso” dell’esistenza. Dio si è fatto Parola, forse anche per insegnare all’uomo ad averne estrema cura, ad usarle non solo come fonte di sapere ma anche come occasione di sapienza e di sapore. Per poi intuire che la parola più bella in certi attimi è il silenzio, il silenzio di chi custodisce le sue cose – anche quelle non capite, agitate, disordinate – meditandole nel suo cuore. Nel silenzio composto di quel prete non c’era l’indirizzo di una colpevolezza, ma la discrezione di un educatore che ha fatto della Croce l’ultimo appunto di una lectio magistralis.
Nessuno ci ha mai creduto a quel sospetto, eppure nessuno ha reagito: ci sono giorni in cui la Chiesa profuma di esemplarità. Era fanciullesco prendere penna e megafono, affilare coltelli e lanciare improperi: s’è preferita la vicinanza discreta di un presbiterio che forse mai come in questi mesi ha avvertito la bellezza di essere “con-fratelli”, di condividere il calice della Gioia e quello del lutto, di essere l’uno per l’altro cirenei della gioia: senza mai disperare. Oggi lasciateci gioire per quest’uomo, memori di un’avvisaglia antica come l’Amore: “mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”. E’ il Vangelo che profuma di pane e di brogliacci, di giorni e di panni da sciacquare, di musiche inedite da intonare. Di una Provvidenza senza pudore: ha usato la storia un prete per far sentire a noi preti il rombo del carcere, molto più vicino a noi di quanto immaginavamo. Su quel prete mi è rimasto un solo sospetto. Che in queste ore sia capace del gesto più disarmante: trovare nel ripostiglio della sua anima qualche sillaba di ricordo per abbracciare chi l’ha ferito. Perchè, da educatore qual’è, sa che in certi istanti è assai difficile amare i giovani: forse non lo meriterebbero. Sono proprio quelli, però, i giorni in cui ne hanno più di bisogno. Per lasciare che il Cielo si specchi nel fango: per riscaldarlo di luce.

(da Il Mattino di Padova, 19 dicembre 2013)

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