Come il vecchio gioco “guardie e ladri” che si perpetuava nell’asilo all’ombra del vecchio campanile di paese. E’ uno dei giochi preferiti dei bambini: c’è chi scappa e si nasconde, chi cerca e qualche volta trova, il gioco di chi ama ricostruire nella sua immaginazione ciò che sovente accade per le strade della città. Il carcere non è un asilo, eppure sovente somiglia ad un luogo dove s’allevano e s’educano dei bambini. Privato l’uomo della libertà, si torna a chiedere il permesso per fare tutto: imbucare una lettera, fare una telefonata, ottenere un francobollo. Potersi fare la doccia. Quasi tutto. Il carcere non è un asilo, ma c’assomiglia moltissimo: fors’anche per quel cercare a tutti i costi d’infrangere una proibizione, di possedere un qualcosa, di farsi recapitare quell’aggeggio per il semplice fatto ch’esso è proibito. E’ la legge della rivalsa: quella che funziona dall’asilo degli infanti all’ospizio degli anziani, passando per le carceri, le scuole e i seminari. Ciò ch’è proibito – forse per il semplice fatto d’essere tale – trattiene una curiosità fatale. Morbosa. Accecante.
In carcere l’istituzione detta legge: sceglie un luogo, la ristrettezza di una cella, ed elabora un codice di comportamento che colui che viene recluso deve rispettare. La sua pretesa è quella di elaborare un sistema che ridimensioni l’esistente al visibile, riducendo al minimo le possibilità di movimento e d’azione di chi è detenuto: più un sistema è chiuso in se stesso, più aumenta la sua forza. Anche nella Chiesa. Forse per questo pochissimi sanno cosa succede dentro le carceri: renderle “case di vetro” significherebbe tante cose. Troppe cose, forse. Dentro, però, vi è anche chi l’emarginazione la subisce e non sempre è detto che l’accetti da inerme: “E’ qui, ora, in questo luogo e in questo mondo, che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio” (E. Hillesum, Diario). Ecco, dunque, che se l’istituzione elabora una strategia, chi vi abita dentro ha la possibilità d’inventarsi una tattica per sopravvivere: per mettere in crisi il potere sorprendendolo con delle incursioni inaspettate e imprevedibili. Doppiamente pericolose perchè, almeno stavolta, lecite: se un detenuto non può modificare la geografia della sua cella, ha però la possibilità di abitarla come vuole lui. Da schiavo o da uomo libero.
La cella, dunque, come un laboratorio dove si attua una delle pochissime forme di rieducazione possibile: l’auto-rieducazione. Attraverso lo studio di una materia scolastica come di una parte di un’opera teatrale, la costruzione di un veliero con stuzzicadenti e colla Vinavil come l’elaborazione di opere narrative e di tentativi poetici. Eppoi la pittura con quell’impressionismo ch’è tipico di chi il sole lo vedi a quadrati, coi colori malfermi di chi s’è visto modificare persino la vista nella lunga permanenza della prigionia, oltreché l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto. Finanche la cella come luogo d’alleanza con la Grazia: nel punto massimo di lontananza con gli umani, qualcuno avverte nell’animo la vicinanza massima e incomoda col Cielo. Per uno che la irride, un altro l’accetta: s’interroga e s’inquieta, s’infervora e s’incupisce, s’aggancia e tenta la salvezza. La cella come palcoscenico d’amori inaspettati: quelli che imbarazzano la storia, complicano persino la teologia, fanno storcere il naso a qualche pia anima devota. Storie d’amore con Dio che nascono ai bordi delle strade: amori di periferia, su trame di delinquenza, con calligrafie scomposte e scompaginate. Perchè quando la Grazia s’intestardisce, cerca ciò che nel mondo è debole e stolto per confondere i forti. Per accendere una sovrabbondanza di grazia laddove tutti vedono un’abbondanza di peccato. Per sorprendere la storia con delle incursioni inaspettate: quelle imprevedibili degli amori folli. Imbarazzanti.
(da La Difesa del Popolo, 23 febbraio 2014)