lucchetto

Come un docente navigato nel mentre spiega il teorema di Pitagora. “E’ la metafora della serratura”, mi dice con lo sguardo convinto e sereno di chi tiene la spiegazione in tasca. E la metafora mi viene subito spiegata, con quell’alfabeto di strada così trasparente da proibire fraintendimento alcuno: una serratura che si apre con più chiavi non vale nulla, una chiave che apre più serrature è il massimo che si possa trovare. Applichiamo il vecchio adagio del prof delle superiori – “mutatis mutandis” – e il risultato al quale s’approda è d’insopportabile fastidio: una ragazza “facile” è una poco di buono, un ragazzo che in un breve lasso di tempo ne cambia ad oltranza è il top della serie. Lo stesso gesto produce due risultati diversi: da una parte l’orgoglio, dall’altra la vergogna. Che, impazzita nella gogna mediatica, conduce fino al suicidio.
Quattordici anni e un tuffo dal balcone: la storia ha inizio e fine nella civilissima Italia, dove una ragazzina di nome Carolina deve fare i conti con un video di lei che gira sulle bacheche virtuali. In realtà sono in due ad essere ripresi ma, secondo il teorema della serratura, solo una deve provare vergogna: lei. Non è un senso di paura che viene relegato in un preciso pericolo fino a tenerlo controllato. La vergogna è qualcosa di più grande, è quasi sperimentare l’angoscia di aver perduto il controllo del proprio destino, è dover fare i conti con un qualcuno che da oggi ha in mano il potere di infangare la tua dignità, di ricattare i tuoi gesti, di esporre al pubblico ludibrio la tua storia. La vergogna s’ingigantisce fin quasi a condurre sul ciglio di un suicidio che, in realtà, è già compiuto nel mentre lo si pensa: si muore prima di tutto nell’anima e poi nel corpo. Eppure all’ombra degli oratori, nel cemento dei muretti, tra i banchi di scuola sembrano piccoli screzi, adolescenziali battute, buffi colpi d’occhio scambiati tra compagni/e scanzonati. A volte è la statura goffa, altre volte il seno piccolo, qualche volta certi comportamenti strani: sono semplici battute ma producono sempre più spesso l’effetto di un sasso gettato in un lago di montagna: appena il sasso tocca la superficie produce onde concentriche che s’allargano a dismisura nello specchio d’acqua. Così è dell’ironia sagace: si getta un sospetto o una diceria ma nessuno può prevedere quali “onde” produca nell’animo di chi la riceve. E fin dove quelle onde possano giungere.
La teoria della serratura attribuisce alla donna un ruolo marginale nel palcoscenico della storia; e molti non fanno altro che ingigantire tale convinzione. Per chi ama la sfida dell’educazione, l’avventura – estraniata da qualsiasi programma elettorale – si mostra ardua: insegnare ad innamorarsi delle fragilità, apprendere la cura dei particolari, affinare la sensibilità delle piccole cose. Tornare ad apprendere un alfabeto che accenda la vita delle persone e permetta loro di sentirsi protagoniste di un’avventura simpaticamente esilarante com’è la vita di ciascuno. La vera vergogna non è di chi nasce donna ma di coloro che, fieri sostenitori della teoria della serratura, pensano che la differenza tra uomo e donna sia solo una questione di posizione. Dimenticandosi che dietro la violenza alle donne – fosse anche solo una violenza verbale o d’immagini – si cela il sospetto che certi volti siano oggetti da usare o storie sulle quali salire per far scoppiare una risata in classe. O all’interno di un parlamento o, purtroppo, dentro qualche navata di chiesa.
Si può morire di piacere. Si può decidere di chiudere tutto per solitudine. Oggi lo sappiamo: si muore anche per vergogna. Che, tra tutte le morti evitabili, è quella più meschina perché iniziata laddove s’è smarrito il confine tra l’umano e il grottesco. Tra l’angelico e il diabolico.

(da Il Mattino di Padova, 13 gennaio 2013)

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