Dame e ostriche. Con due opposti protagonisti: da una parte il romanziere siciliano Giovanni Verga, dall’altra il consigliere laziale Franco Fiorito. Nella sua celebre novella Fantasticheria – anticipazione di quell’immenso capolavoro letterario che furono I Malavoglia – il Verga teorizza il suo “ideale dell’ostrica”, ovverosia la convinzione che per i deboli l’attaccamento alla famiglia, al focolare domestico e alla casa – con le sue vecchie tradizioni fatte di proverbi, di pesca e di sacrifici – è il segreto per evitare che il mondo li divori. La novella è indirizzata sotto forma di lettera ad una dama dell’alta società che, fermatasi per due giorni in un paesino di pescatori e affascinata da quel mondo pittoresco, rude e semplice, poco dopo fugge annoiata. Come l’ostrica vive sicura finché resta avvinghiata allo scoglio dov’è nata, così l’uomo del Verga vivrà sicuro finché non comincerà a nutrire manie di miglioramento, tradendo così le sue origini, quella religione della famiglia ch’era la loro liturgia quotidiana.
Anche nella letteratura di Franco Fiorito (& company) ci sono ostriche e dame. E pure lui è protagonista di tutta una letteratura romanzesca che, pur non potendo rivaleggiare con quella del Verga, rimarrà comunque nota alla cronaca dell’Italia. Le ostriche e le dame qui raccontate sono altre, anche se il principio che le fa staccare dallo scoglio è il medesimo: l’ambizione per il potere – colorato di dame, di regali e di corruzioni -, l’eludere la fiducia data dalla semplice gente di campagna – ancor troppo ingenua per poter ribellarsi a gran voce -, la voglia di diventare un qualcuno di influente, una specie di self made man capace un giorno di poter vantare ai quattro venti: “mi sono fatto tutto da solo”. Tradire i valori nei quali hanno creduto i padri – e padri furono pure quei politici che hanno speso la vita al servizio della gente – e allontanarsi dallo scoglio nel quale si è nati è roba da avventurieri azzardati. Che poi vada di moda, questo non cambia il senso della “profezia” del Verga: per qualunque motivo si tradisca lo scoglio, il destino sarà il medesimo: si finirà inghiottiti dal mare. Quando il Verga scrisse la sua novella, il Novecento doveva ancora arrivare: eppure con la forza del suo genio e della sua penna seppe tratteggiare un alfabeto che mai come oggi risulta capace di parlare alla storia dell’uomo. Quella del Verga è una novella, quella di Fiorito è una storia, un pezzo della nostra storia. A colpire – oltre che la stazza del personaggio ciociaro – è l’arroganza e la manipolazione della realtà tipica di chi ha smarrito il senso della realtà interpretando una missione – quella politica – come se fosse il gioco del Monopoli o la versione moderna di Guardie e Ladri. E colpisce pure la tranquillità pacifica e serena del popolo italico che, stremato da sacrifici enormi e angusti, non trova il coraggio di ribellarsi ad uno stile che offende il senso della dignità, del pudore e delle tradizioni dei nostri padri. A poco vale anche il monito della Chiesa contro la corruzione politica: la Chiesa non avrà niente da dire sulla morale – nelle sue varie espressioni – fino a quando coloro che ci ascoltano non avranno goduto di un barlume del piacere di Dio nella nostra esistenza. E’ questo il “magro presente” – di cui ha parlato giorni fa il card. Bagnasco – che dovrebbe disturbare il sonno: il fatto che nemmeno la Chiesa possa avvalersi della presenza di nomi non chiacchierati, credibili e autorevoli.
Per le ostriche del Verga l’argomento più interessante deve essere stato quello che trattava delle insidie del gambero o del coltello del palombaro che le staccava dallo scoglio. Per chi dell’Italia ha fatto la sua casa, l’argomento più interessante sembra essere quello di Tutto il calcio minuto per minuto. Lasciando che altri firmino la vita al posto nostro, nonostante si fossero presentati all’inizio con una festa a tema ch’era il vero programma, rigorosamente rispettato fino all’ultimo: la “festa dei porci”.