E’ una faccenda complicata la libertà: da gestire, da condividere, ancora di più da comprendere. Della libertà diciamo tutti d’esserne gelosi, al punto tale da rivendicare il diritto ad essere liberi. Soltanto chi l’ha perduta – quale sia il motivo non conta – potrà, però, ammettere d’averne conosciuto la sua vera fisionomia. La Giornata della Memoria, tra migliaia di pensieri, risveglia il tema della libertà: quella sequestrata, offesa, umiliata. La libertà di chi è entrato in un campo dello sterminio con un nome addosso e se ne è uscito (se è uscito!) con un numero tatuato sulla pelle. Non soltanto loro: basterebbe aver perso per qualche attimo la libertà, per percepire sulla pelle la sua grandezza. Fare memoria, dunque, di un qualcosa di faticoso che ci ha tolto la libertà, non è quello che ricordiamo noi di quel fatto passato: è la memoria che ci ricorda chi siamo oggi.
Vivendo con le persone private della libertà, ho imparato la differenza che c’è tra “liberazione” e “libertà”. Per avere una liberazione è sufficiente avere un “fine pena”, che qualcuno ci apra la porta, il cancello: basta l’attesa. La libertà, è qualcosa d’infinitamente più grande: è avere fatto pace con un passato tragico, avere tirato giù la serranda di una stagione, di un episodio. Quando a Nelson Mandela venne concessa la liberazione, dopo essere uscito dalla prigione di Robben Island si voltò indietro a guardare quel portone per lasciare là dentro i pensieri di vendetta. Al contrario, sarebbe stato un uomo libero condannato a convivere con una prigione che non l’avrebbe mai abbandonato. “Un giorno me ne andrò da questa prigione – mi disse un giorno una persona detenuta -, ma non è scontato che questa prigione se ne vada da me”. Le prigioni geografiche, quelle spirituali, quelle umane: spesso avvertiamo chiaramente la sensazione di essere liberi cittadini che vivono prigioni invisibili. Direbbe Mandela: «La verità è che noi non siamo ancora liberi ma abbiamo soltanto conquistato la libertà di essere liberi, il diritto a non essere oppressi». Liberazione non è libertà.
Più di qualcuno, dopo aver ottenuto la “liberazione” dal lager, non è stato più capace di riappropriarsi della sua libertà. È rimasto prigioniero di un senso di colpa: “Perchè io mi sono salvato e gli altri no?” Per qualcuno di loro la morte, scansata nei lager, è arrivata tramite le sue stesse mani: la prigionia, anche da vivo, è rimasta ad abitare dentro lui. Non è semplice godere della piena libertà, anche con la fedina penale pulita. Come non ha senso invocare, prima di tutto, la libertà di pensiero: occorrerebbe, prima, averne almeno uno da preservare.
(da “Specchio” de La Stampa, 28 gennaio 2024)