Per Dio, l’uomo è la frase più bella all’interno della sua canzone preferita. L’ha giurato a Nicodemo, l’amico nottambulo, che sfidò l’intero sinedrio, pur di andare a conoscere quell’Uomo dalle parole così elettriche da accendere la vita: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, l’Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Tanti – avanti Cristo e dopo Cristo – hanno tentato di accreditarsi come salvatori dell’uomo, ritraendosi quando l’acqua saliva di livello. Dio, invece, ha esagerato per differenziarsi: «Ha tanto amato il mondo». “Tanto” è aggettivo indefinito, nasce per indicare totalità indeterminate: più che misura approssimativa è misura di non-contenimento, la misura di Dio, ch’è amare senza misura. È il gesto di chi è disposto ad affogare, pur di salvare chi sta affogando: tutti vogliono venire a salvarti, ma solo fin dove si tocca. Poi: che ognuno vada incontro al suo destino. Cristo no: si spinge nella salvezza ad oltranza, vuole raggiungere l’uomo in panne, non gli importa più la sua salvezza. Gli interessa l’uomo: “Assieme, insieme oppure non vale” dice.
Una botta al buon senso di chi dice di amare e, magari, ti vuole solo bene: non è poco il bene, ma non è l’amore. Assomiglia di più alla compagnia che ad una sfida in faccia alla morte: «Forse questa – scrive Sarah Brennan -, è l’unica cosa che abbiamo imparato a conoscere dell’amore: l’amore è quando si salva qualcuno, non importa a che prezzo». Nessuno si salva da solo, nemmeno Dio salva da solo: impegna tutta la Trinità Santissima. Si muovono in tre per andare in soccorso dell’uomo che affoga: «Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio» (cfr Gv 3,16-18). C’è un Dio, il primo della triade: è Lui a firmare il mandato di salvataggio al Figlio. C’è il Figlio, il secondo della triade: è Lui, fisicamente, a calarsi come il soccorritore d’alta quota. Il primo manda e il secondo parte per amore: la terza persona della triade, lo Spirito Santo. Non fa nulla di testa sua, il Padre, senza la solidarietà del Figlio; non fa nulla il Figlio, senza l’avvallo del Padre; non muovono foglia quei due se non c’è l’amore reciproco a spingerli, lo chiamano Spirito. È la cosa più buffa, dell’intera fede cristiana: sono in tre ma paiono un tutt’uno, sono un tutt’uno. Rimangono, perciò, il più grande imbarazzo nella storia di quaggiù, dove uno più uno più uno fa tre. “Sommare”, però, non è l’operazione del Cielo: “moltiplicare” (per poi con-dividere) è l’esercitazione mattutina della Trinità: uno per uno per uno farà sempre uno. Anche la matematica, di fronte a loro tre, non trova di meglio che inchinarsi, ringraziando per la salvezza ottenuta. Moltiplicare per poi (con)dividere è il marchio di fabbrica della Trinità: essere per gli altri.
La creatura da salvare non è granché: «È un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato – suggerisce Mosè a Dio -: fa’ di noi la tua eredità» (Es 34,9). Niente di meno del sogno originario, originale dell’inizio della storia: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Non una creatura qualsiasi, ma il riflesso di Dio. Anche da peccatore, dunque, non andrà gettato via. Nessuno condanna, Dio non è una mente mediocre, di quelle che di solito condannano chi è oltre la loro portata o disprezzano chi è sotto alla loro di stoffa. È Dio: «Ogni volta che mi guardi nasco nei tuoi occhi» (J. Riechmann). È il loro trucco: la salvezza passa attraverso lo sguardo, un’occhiataccia in piena notte, uno sguardo furtivo all’albeggiare, un occhiolino al vespro. In qualunque notte l’uomo si sia imboscato, c’è la Trinità pronta a partire per il salvataggio. La creatura che, solo, ci pensa, fatica a dormire la notte; sperimenta su sè quant’è di spessore un amore siffatto: non riesce a prendere sonno perché la realtà è di più dei tuoi sogni più belli. Un solo dubbio aleggia nella casa della Trinità, ch’è sempre in allerta, sempre pronta a partire nell’istante in cui sopraggiunge una chiamata di soccorso: come salvare qualcuno che non vuole essere salvato?
(da Il Sussidiario, 6 giugno 2020)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Giovanni 3,16-18).
Dal 3 giugno in tutte le librerie I gabbiani e la rondine (Rizzoli), il nuovo libro di Marco Pozza
La sofferenza, la rinascita, la bellezza nella Via Crucis che ha commosso il mondo.
Roma, 10 aprile 2020, Venerdì Santo. Nel pieno della pandemia, la Via Crucis celebrata dal Papa non si svolge in mezzo alla folla, nel Colosseo, ma nella piazza San Pietro deserta, sotto lo sguardo dell’antico crocifisso della chiesa di San Marcello al Corso. Le parole che risuonano nella notte della morte e del dolore provengono dalla parrocchia del carcere di Padova: a meditare sulle quattordici stazioni della Passione di Cristo è un’intera comunità di uomini e donne che abita e lavora in questo mondo ristretto. “Mi sono commosso” ha scritto Papa Francesco. “Mi sono sentito molto partecipe di questa storia, mi sono sentito fratello di chi ha sbagliato e di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita della scarpata.” In questo libro, partendo dalle meditazioni sulla Via Crucis raccolte e scritte insieme alla giornalista e volontaria Tatiana Mario, don Marco Pozza ha costruito un racconto sulla fede e la risurrezione dei viventi: la Via Crucis di Gesù diventa così una Via Lucis degli uomini, la cui sofferenza è stata riscattata da Cristo in persona. “Mai celebrata una Via Crucis così” scrive l’autore. “Pareva davvero d’attraversare l’Odio desiderando l’Amore.”
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