Passasti veloce ma il cuore esplose e m’innamorai. Lo feci all’ombra di quel cupolone che successivamente ha registrato le nostre scorribande notturne sotto il cielo ormai prossimo al Vaticano (che azzardo, accipicchia, poprio sotto la finestra del Papa). In quel vespro romano eri di una sensualità strepitosa e fantasmagorica. Il volto e la sinuosa movenza dei tuoi passaggi tenevano la bellezza delle cose semplici e genuine: il profumo del fieno, il sapore delle stelle, la fragranza del pane, il silenzio della polvere sbattuta dal vento. T’amai al primo sguardo, malefica e celeste, perchè nei tuoi occhi s’inanellava un alfabeto laico folgorante. Tu eri bella, troppo bella, sembravi la vita stessa: con i suoi colori, i suoi brividi, l’ammalianza delle sue forme. Persi letteralmente la testa per te e fu una sbandata in pieno sacerdozio, di quelle che disturbano le notti, colorano l’immaginazione e infiacchiscono il cuore. Ti sognavo svestita e scattante, cattiva e sensuale, superba e infantile. Mi trovavo a rincorrerti tra le lenzuola dei pensieri, cercavo il tuo volto sotto il cuscino, affogavo tra le pieghe del piumone per non perdere le tue tracce. Annusavo l’aria per chiedere del tuo passaggio. L’alba troppe mattine m’ha smascherato con gli occhi stanchi e i muscoli spossati: ma tu eri tu e io non potevo smettere di darti la caccia perchè ho imparato che le grandi muse sono di una bellezza insopportabile. Il mio sogno era di affogare tra le tue braccia, di toccare quella magia gelosa, d’assaporare il gaudio del tuo veloce incedere. Ma come premio di quell’inseguimento mi rimase solo la certezza che delle donne tu sei l’emblema più elevato. Nulla di più.
Mi fidai, però, di coloro che mi dissero che la condizione prima per potersi infilare tra i tuoi pretendenti è di fare i conti con la tua severa bellezza. Tu me l’hai insegnato dopo – a pugni in faccia o con sguardi inenarrabili – che chi nasce bello/a può tutto nella vita: vivere e far vivere, scappare e far morire, far impazzire ed esaudire. Io so solo che che da quasi mille giorni ho perso letteralmente la testa per te. Stanco d’esser rifiutato da così sublime splendore, parecchie notti m’han visto dormire con le scarpe addosso e la tuta come pigiama: per inseguirti qualora m’avessi teso un braccio, una mano, un bacio. Niente di tutto questo: passavi accanto al cuscino, rallentavi abbassando il volto sin quasi a percepirne il respiro, accendevi la mia curiosità e nel mentre m’avvicinavo sornione scattavi altrove. Maledetta bellezza! Così ho accettato di correrti dietro ovunque perchè tu sei diventata l’emblema del mio vivere. E accettare di fare i conti con te è accettare di fare i conti con la mia storia fatta di passato, impreziosita di presente e colorata di tanto futuro.
Questo significa rincorrerti. Ma è anche infinitamente di più. Perchè tu sei una donna smaliziata: avanzi perchè io m’avvicini ma nel mentre m’addentro verso di te, t’inabissi nell’oscuro e scompari. Per poi riapparire altrove e rimetterti a danzare, fluttuare, stregare. E io divoro chilometri per inseguirti, mangio la polvere del sentiero, bestemmio la tua bellezza, cerco di spostare la resa finale. Ma non ci riesco perchè tu sei bella, troppo bella: sei quasi la vita stessa. E allora diventi il troppo che incoraggia e scoraggia: troppo caldo, troppo freddo, troppa neve, troppo vento. Troppo sonno per partire. No: non c’è armistizio in quest’eccitazione perchè tu con me hai sempre fatto quello che hai voluto, perchè nascere bello/a è tutto. Prendere o lasciare. Tu mi prendi e mi sposti, mi trapianti altrove, mi spingi se mi fermo, mi massacri se ti corro incontro, mi streghi se ti maledico. Sei una tempesta, un fulmine, una freccia di Cupido. Una spada di Damocle dalla quale io cerco riparo: sotto un albero, al limite di un pagliaio, sotto una tettoia. E se il fisico è pesante vomito perchè avverto di essere un proletario di fronte a te: vomito e sporco la polvere, mi guardano tutti e si dicono l’un l’altro “ma chi glielo fa fare”, il fisico chiede la resa, il Calvario in confronto era un giardino. E tu te ne freghi: succhi il mio sudore, mi violenti, mi massacri, mi togli la voglia e te ne infischi se mi vedi ridotto ad uno straccio. Così io dico “basta, mi arrendo”.
E allora tu ritorni e rallenti l’andatura: bella, spietata, malefica. D’una bellezza insopportabile. E tutto è rimandato.
Riparte l’intrigo. Una, due, tre. Infinite volte.
Qualcuno m’ha detto che adesso hai preso casa a Milano, in zona Fiera. Quando domenica mattina aprirai la finestra della camera, sposta i gerani sul davanzale e guarda giù in strada: sono ancora io, tesoro. Non tengo la voce del cantante e nemmeno la penna del poeta. In mano non ho fiori perchè quei pochi soldi che avevo li ho spesi tutti per comprarmi le scarpe e rincorrerti. Porta pazienza se la maglietta è sudata fradicia e i capezzoli spandono sangue: devi sapere che su quella pelle sono stampati milleduecento km, ottantacinque ore di corsa, ottantaquattromila calorie consumate e dodici settimane di letterale follia d’amore. Porta pazienza se anche stavolta mi presento a te vestito di polvere e di sogni: mi rendo conto d’essere un proletario di fronte alla tua sublime compostezza. Un proletario che domenica mattina, però, sarà disposto a leccare l’asfalto con la lingua pur di rubare un mezzo sorriso alla sua donna nascosta tra i merletti del Castello Sforzesco di Milano.
Io credo che il Signore mi abbia fatto per uno scopo (…) però mi ha fatto anche veloce e quando corro lo sento compiaciuto. Sento che abbandonare sarebbe come disobbedirgli. Correre non è solo bello, vincere è onorare Lui (…)
Quel ragazzo è un vero uomo di principi e la sua velocità è l’estrinsecazione di quella che è la sua fede e la sua forza. Volevamo separare la sua felicità da lui. (Momenti di gloria, 1981)
P.S.: tanto perchè tu abbia un metro di misura, sappi che ho mostrato questa lettera a Luca, un mio carissimo amico ch’è diventato protagonista di uno splendido romanzo. E mi ha detto che la Valentina – vedessi che meraviglia di ragazza – per molto meno (ma tanto meno, sai!) ogni sera gli dice Ti voglio bene, tesoro. E se lo coccola ore e ore mentre stanno seduti sul divano di casa. Luca è un fannullone della peggior specie e ciò che fa per lei non è nemmeno paragonabile a ciò che io faccio per te: vedi tu se questa è giustizia.
Non ti chiedo tanto per domenica prossima: ti chiedo semplicemente di non tirartela troppo.
Abbi pietà di me che sono un maratoneta. E io, splendida donna maratona, te ne sarò grato 4ever!