La cosa suona assai strana, eppure dev’essere accaduto proprio questo: che nemmeno Cristo – dopo esser venuto al mondo e, ancor più, dopo essersi messo in proprio dai suoi di casa sua – avesse ben capito, come non lo capisco bene ancora io, il perché della sua avventura quaggiù. Se non proprio il perché, almeno il come funzioni la logica di Dio. Era perfettamente Dio, avete ragione: è la cosa più facile da credersi, quasi nessuno fatica più nel prestare fiducia al fatto che è Dio. Era anche uomo, però, tenetelo a mente: e, come uomo, dovette spendere tanto-tempo per diventare uomo. Quella di diventare-uomo – «E il verbo si fece carne» (Gv 1,14) – fu esattamente la carriera di Dio, dal momento che uomini non si nasce, lo si diventa. “Non è neanche uomo” dici, ogni tanto, di qualcuno nel quale noti una mancanza di carattere, un’insufficienza di cuore, una latitanza di coraggio. Hai ragione: “È uno che un giorno potrebbe diventare un uomo. Non è detto che lo diventi, però”. Su questo crinale, ch’è tipico di chi nasce uomo, anche Cristo ha piantato la sua tenda, accanto alla mia: ha cercato in tutti i modi di farsi-uomo pure Lui. Senza affatto scansare gli sberleffi di giornate storte: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). “E se sbagli, la prossima volta impari” era la frase preferita della mia nonna quand’ero piccolo: deve suonare più o meno così la traduzione più domestica di quella che riguarda l’obbedienza di Gesù. Che, per diventare uomo, dovette apprendere le stesse cose degli uomini: farsi barba e capelli, tagliarsi le unghie, sporcarsi le mani. Zappare, mangiare, studiare e dormire. Non gli fu semplice nemmeno – è la più grande consolazione in materia – il capire come ragionasse suo Padre: «Come padre tu eri troppo forte per me e io dovetti, di conseguenza, sostenere da solo il primo urto, per il quale ero troppo debole» (F. Kafka, Lettera al padre). Cercare di fare mente-locale su cosa s’aspettasse da Lui quel Padre che, con una parola, governava il mondo.
Un Padre-Dio che era la misura di tutte le cose.
Eccolo, dunque, il Cristo-che-matura: il Bambino si sta facendo le ossa nel momento esatto in cui tutto sembra rinfacciargli: “hai sbagliato strada. Torna indietro”. I dottori l’abbandonano, scribi e farisei tentano di accartocciarlo con parole mute e sorde, gli apostoli mostrano di non capire affatto cos’è quella strana faccenda che chiama Regno-di-Dio. Sta toccando il fondo dell’incomprensione, Cristo. E’ l’attimo nel quale sboccia una delle rivelazioni più stupite dei Vangeli: «Ti rendo lode, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli». Gesù, specchiandosi nell’arroganza avversaria, s’accorge del luogo dov’è andato a nascondersi – perché se lo gustassero nell’intimità – il Padre. E, accortosi di quant’è generatore di bellezza quel suo farsi-piccolo tra i piccoli, decise chi diventare da grande: «La sua vera gioia è di rivelarsi a dei poveri uomini schiacciati da colpe abituali, e d’aprire sotto i loro passi un abisso di misericordia e di perdono» (F. Mauriac). Il tempo di prendere le misure e Lui, così duro coi dottori e coi farisei, si addolcirà con i piccoli: andrà a lezione da loro per cercare di mandare a lezione chi pensava d’essere nato dotto e sapiente. Li preferirà quei piccoli – storpi, gobbi, rachitici, malandrine, slabbrati e fetidi – perché odia il mondo e tutto ciò che gli gira attorno. Ha deciso che, d’ora innanzi, si concederà a tutti coloro che non sono del mondo. Anche a quelli che adesso lo sono ma un giorno decideranno in cuor loro, magari accorgendosi di quant’è bello essere uomini-bambini, di andare dietro all’altro principe, quello che scrive il mio nome rigorosamente con la Maiuscola, appuntato nel concavo della sua mano. Governerà i cuori come si governano i corpi. Solo che Lui ha deciso che governerà il mondo con la gioia: «Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio peso leggero». A governare con la paura sono capaci tutti: Gli pare noioso.
Un figlio che si stupisce di suo papà è una meraviglia: cogliere quell’attimo è appartenere al proprio futuro. È l’infanzia dei Vangeli: la storia della salvezza poggia su stecchini di legno, non su architravi di calcestruzzo.
Materia di una fragilità inossidabile.
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Matteo 11,25-30).
Avviso parrocchiale
Vi aspetto, per chi vorrà, sabato alle 17.30 su RaiUno con Le ragioni della speranza.
In questa nona puntata del nostro ciclo commenteremo il Vangelo della domenica dall’Eremo delle Carceri di Assisi (PG). L’estate è il tempo della sdraio sotto l’ombrellone, del cocktail a bordo piscina, del corpo che ritrova l’energia. E’ anche il tempo dell’anima: dedicarle del tempo è dedicarsi del tempo. DedicandoGlielo.
(foto di copertina tratta da www.cinisionline.it)