Per te sprecarono le parole fior di poeti, prestarono la loro voce centinaia di salmisti e cantori, offrirono il loro sguardo donne festanti e gioconde: a nulla valse la loro anagrafe di peccatrici o di insolenti, di burattinai o di funamboli, di meretrici o di acquasantiere della grazia. Chi di Te s’azzardò a parlare nella notte dei secoli lo fece col proposito di far saltare il banco della legge e della storia. Eppure mai e poi mai avremmo immaginato che l’Uomo dei sogni e l’Atteso delle genti arrivasse con siffatte sembianze dopo così spasmodica attesa. Qualcuno – armato di carta e calamaio – disse di te che fosti il Bambino più capriccioso della storia: nessuno prima di te e nessuno dopo s’azzardò a scomodare persino le stelle con le loro galassie per additare al cercatore il numero civico presso il quale porgerti uno sguardo. Accipicchia, fossi nato con i capelli già copiosi e magari un po’ ricci (come t’immaginano gioiosi i nostri di bambini) verrebbe voglia di nasconderci dentro le nostre mani e farti il solletico. Perché, capriccioso o meno, Tu eri davvero quello che aspettavamo a casa nostra.
Perché un giorno Tu ci parlerai di Dio con il linguaggio dei bambini e non con quello dei rabbini, perché c’implorerai il favore di guardare il volto di quell’Uomo barbuto e anziano – che nelle noiosissime ore di catechismo ci hanno imposto di chiamare Dio abbassando lo sguardo – e c’insegnerai che c’è un nome tutto nuovo da poter usare, quello di papà, con quell’alfabeto di tenerezza cucito addosso: la severità e le coccole, la mansuetudine e la chiarezza, il piglio severo e lo sguardo commosso. C’ammaestrerai che quell’Uomo piange e ride, gioca e si nasconde, accarezza e si rammarica parlando di pecore e di perle preziose, di sementi e di fichi da raccogliere. Parlando della terra, del cielo e delle passioni che fanno ancora battere il cuore dell’uomo. In un mondo in un cui i bambini devono nascere che sanno già scrivere e fare di conti, che in tasca tengono un’agenda policromatica per segnarsi tutti gli impegni quotidiani, che da piccoli sognano di diventare grandi e poi da grandi vorrebbero ritornare piccoli, ci mancava proprio un Bambino che fosse orgoglioso d’essere bambino. E che ci raccontasse la gioia di uno sguardo, di una carezza, di un’increspatura del volto, che ci narrasse delle cose ultime e delicatissime: delle cose di Dio. Ti aspettavamo quaggiù: ormai le parole non ci saziavano più, troppa attesa c’aveva fatto divenire mendicanti dell’Attesa più dolce, quella che sazia il cuore e rende forte persino il pensiero. Ci mancavi Tu, con quel fare scanzonato e divino, grazioso e luccicante, splendido e inafferrabile. Col tuo fare da bambino.
Di te dissero che fosti il Bambino più capriccioso della storia per quel tuo estenuante “farti attendere”. Più che capriccioso a me sembri paradossale. Perché troppi oggi c’insegnano che per fare un tavolo ci vuole il legno. Ma solo Tu – sfidando la leggiadria dei poeti e l’arte dei narratori – c’insegni che dietro il legno c’è la maestosità di un albero, che dietro l’albero è nascosto un seme e che dietro un seme ci sono i petali di un fiore. Nessun falegname T’assumerebbe a bottega, eppure è proprio così: per fare un tavolo ci vuole un fiore. E il fiore è il simbolo della Bellezza. Un giorno per quella bellezza ad un Albero Ti appenderanno, così noi impareremo che ogni fiore chiede un prezzo per non lasciarsi appassire dalle intemperie.
Nascesti come un principe, avendo come tetto una costellazione intera di luce. Morirai come un Dio, trafitto per troppa bellezza. Che tu sia capriccioso o paradossale non conta poi così tanto: quello che ci preme dirTi è che stavolta per poco non morivamo di disperazione. Per fortuna sei arrivato. E non sai quanto ci fa battere il cuore saperTi vicino a noi fin quasi a stringerci come due fratellini spensierati nel letto di casa nostra. E immaginare che sotto il piumone – al riparo dallo sguardo di Erode – ci guardiamo in volto sorridendoci. Quasi a dirci: “finalmente ci siamo incontrati”.
Mio Dio, quanto mi sei mancato!