Sbarca in Italia porgendo una scusa: “Scusate se sembro arrogante, ma il fatto è che sono speciale”. Bastano due anni e conia un nuovo vocabolario: cosicchè con lui “zero tituli” o “prostituzione intellettuale” entrano di diritto nell’immaginario sportivo – filosofico del calcio nazionale. Come 99,9 per cento non sarà più sinonimo di quasi certezza ma di dubbio irrisolto e beffardo. Ha diviso la penisola in sostenitori e detrattori: tanto che la letteratura sportiva parla già di un prima e di un dopo. In mezzo ci sta lui, l’allenatore degli allenatori, Josè Màrio dos Santos Mourinho Fèlix. Simpatia o antipatia a questo punto non contano: conta solo che questo è sbarcato dall’Inghilterra con una mentalità così vincente da contagiare di vittoria un ambiente che cercava disperatamente folate d’aria fresca. L’arroganza c’è tutta: resta da capire se val meglio l’arroganza schietta del Mourinho portoghese o l’italico vittimismo del Santoro mediatico. Comunque sia, in Italia un consenso popolare è difficile da trovare: è un paese che all’anagrafe registra sessantacinque milioni di allenatori. Resta il fatto che quest’uomo ha riacceso il senso d’appartenenza ad una squadra, la fede assoluta per la propria bandiera, il sacrificio spinto all’estremo, la passione per ribaltare la cattiva sorte. E in una società dove il singolo è il tutto, l’appartenenza ridotta ad un vecchio amarcord e i giovani sono allevati con metodi antiquati, ricreare una religiosità – seppur sportiva – è cosa che appartiene al genio. Lo definiscono un “comunicatore” pensando di rendergli uno sberleffo e non s’accorgono che saper comunicare è oggi la condizione necessaria per far passare un’idea, un sogno, una previsione: con buona pace di chi s’ostina a ripetere che contano le intenzioni e il contenuto di un’affermazione. Lo irridono, poi s’innamorano e alla fine lo rimpiangono: perchè di uno che dice d’essere il vincitore anche quando perde o ti irriti o sei costretto all’ammirazione. E se ti irrita è perchè in un popolo abituato a ragionare sempre facendo i conti alla fine, lui il verdetto lo fa all’inizio: “vinceremo”.
Prende Robespierre e lo aggiorna, cita Sartre per smontare la noia di Ranieri, proclama l’individualismo dell’allenatore e il collettivismo della vittoria, minaccia pure a sproposito perchè vede complotti nascosti ovunque: ma nel Mourinho – pensiero non esiste calciatore grande che vinca senza integrarsi nella squadra. E così fior di campioni risalgono sulle fasce operaie, capitani s’immolano al servizio della squadra, bellissime primedonne tornano a vestire i panni dei faticatori. Non è tutto oro ciò che esce dalla sua bocca: basta un gesto, un fischio, un movimento di labbra per minacciare l’avvento della spada di Damocle sul suo capo. Eppure lui rimane lì: con quella smorfia sul viso che snocciola un alfabeto di pensieri. E tanta convinzione nei suoi mezzi.
Forse domani se ne andrà. O forse resterà: il numero 99,9 è una percentuale che non da più sicurezza come fino a due anni fa. Qualora se ne andasse rimane però la sua equazione vincente, quella formula nascosta nel libro degli appunti costantemente aggiornato: perchè lui sa che nessuno è così grande da potersi permettere di sentirsi un arrivato. E l’equazione è semplice: motivazione + ambizione + spirito + squadra= successo. Così semplice che se applicata a qualsiasi ambito dell’umano risulterà fonte di guadagno.
E di solitudine per i numeri uno.