Cosa accomuna i principali temi del dibattito etico odierno? L’eliminazione dell’altro, del diverso-da-me. In questa direzione vanno, ad esempio, le relazioni omosessuali, in cui è anestetizzata la diversità e ne è castrata la ricchezza e la profondità.
Ma tutto questo non è un fulmine a ciel sereno. Nient’affatto. Affonda le sue radici in una cultura, anzi, quasi in una psicologia ossessiva e schizofrenica, del sospetto.
Tutto è, potenzialmente, a me nocivo, fino a prova contraria. Non c’è un approccio positivo e propositivo all’altro. L’altro è, di per sé, una minaccia. Che può essere messa a tacere. Che può diventare alleata. Ma la minaccia, come sopita, rimane. Latente. Strisciante.
La gratuità è vista anch’essa con sospetto, temendo reconditi, non specificati, ma “inevitabilmente”, in qualche modo e in qualche posto, presenti “secondi fini”.
L’amicizia è, in realtà mera alleanza, associazione, mancando ormai di quella spontaneità e naturalezza che dovrebbero costituirne i connotati fondamentali.
Una società dotata di una certa e sbandierata, ma solo apparente, apertura mentale, svela il suo reale volto, facendo, in realtà, del gossip il suo piatto forte, di cui si nutre fino all’indigestione. Ogni occasione è buona per parlare male di questo e di quello, per potersi gonfiare e dire: “io sono meglio”.
Lo straniero è visto con malfidenza, ostracizzato, ghettizzato… spesso, in modo reciproco. Siamo reciprocamente stranieri gli uni gli altri, dimenticando di essere fratelli.
E siamo talmente impegnati in questo, che diventiamo stranieri in famiglia, tra le quattro mura di casa, tra fratelli, sorelle, amici, conoscenti, colleghi. Tutti vicini, ma mai così lontani.
Quasi camminassimo non visti, ma, soprattutto, senza nulla vedere di ciò che ci circonda. E che potrebbe turbare il nostro quieto vivere, il nostro piccolo, tranquillo e pacifico “mondo dorato”.
Allora, “costretti” dal nostro stesso essere umani a intraprendere relazioni interpersonali, esse si ritrovano, il più delle volte, ad essere tanto caricate di paura, da essere poco più di un “servizio” di cui usufruire. Stando bene attenti a non restarne coinvolti, per allontanare (o illudersi in tal senso) lo spettro del dolore, della malattia, della morte.
Spettri che, inevitabilmente, presto o tardi si ritrovano a far capolino nella nostra vita, ricordandoci quanto ci si stia – solo – illudendo di averli sconfitti.
Abbiamo paura del nostro essere noi stessi. Abbiamo paura del nostro essere maschili o femminili.
Senza sfociare – necessariamente – in comportamenti omosessuali, come non notare i frequenti atteggiamenti di sfida e scimmiottamento dell’altro sesso, i ripetuti discorsi denigratori dell’altro e di superiorità del proprio gruppo identificativo (con modalità, dunque, in qualche modo di auto rassicurazione in un insieme che è auto referenziato): tutti atteggiamenti che denotano un gigante d’argilla che, come la volpe con l’uva che non riesce a raggiungere, la insulta come rivendicazione della propria personale impotenza.
E in questa stessa visione può essere ricondotta l’intera e annosa questione bioetica. L’altro-da-me, il diverso-da-me, colui che mi interroga sul mio stesso senso diventa lui il “nemico”, lo “straniero”, affrontando il quale mi ritrovo a rispondere ad una domanda di affermazione, che richiede la negazione dell’altro.
E, nei casi del limite, del confine invalicabile vita-morte si fa forte questo richiamo: l’altro è il diverso-da-me in quanto non-sano (al contrario di me), non-nato (al contrario di me), non-autosufficiente (al contrario di me). Negata ogni possibile integrazione o, meglio, negata la contemplazione di ogni possibile complementarietà, ecco che si affaccia un drammatico aut-aut: o me o l’altro.
E, di fronte alla tragicità di questa scelta, spinti da valori quali una libertà individuale (esasperata e incurante della sua originaria e necessaria esistenza all’interno di una relazione – anche per il solo fatto di essere inserito in una società, quella umana) siamo portati a quell’istintuale spirito di autoconservazione, per il quale scegliamo noi stessi e scartiamo tutto ciò che – riteniamo – possa nuocere.
Qui sta il punto. Perché ritenere che l’altro-da-me sia incompatibile con me? Perché negare persino la possibilità di una complementarietà? Eppure, questa è la realtà.
Perché, sfatati i buonismi e i falsi pietismi, questo resta, in concreto: la mancanza di coraggio di un confronto reale con qualcuno che sia altro-da-me.
Questo “specchiarmi” in una differenza produce in me terrore, orrore, spesso rifiuto.
Io leggo in questa sensazione qualcosa che nuoce a me: invece di affrontare la mia sensazione “negativa”, opto per la soluzione più facile, e, in una semplificazione di freudiana memoria, ecco preferita l’eliminazione dell’altro – esterno a me – alla risoluzione (più complessa e più dispendiosa) del conflitto interno a me.
Ecco perché ritengo le questioni di bioetica e di etica sullo stesso piano. Perché nate da uno stesso principio teorico-pratico di opposizione netta, o, quanto meno, di chiusura nei confronti dell’Altro.