In ordine, l’articolo del “Corriere” e la lettera che vi risponde.
Per ragionare pacatamente di affidamento e affini, in vista di una famiglia accogliente.
di Gian Antonio Stella, dal “Corriere della Sera” del 18 aprile
Bambini prima affidati e poi tolti – L’Italia dei genitori «usa e getta»
Spesso sono solo un «parcheggio» temporaneo. Raccolta di firme per cambiare la legge
MILANO — Ma vengono prima, per la legge, i diritti dei bambini abbandonati o quelli degli aspiranti genitori? È quello che ti domandi leggendo sul sito dell’associazione «La Gabbianella» la testimonianza di Claudio e Cinzia che, come scrivono, sono stati «trafitti a tradimento da una brutta storia di affido». Al centro di questa storia c’è una piccola, Micha, dalla vita travagliata: i primi due mesi (disastrosi) coi genitori naturali, poi in ospedale per denutrizione, poi in «parcheggio d’urgenza» presso una famiglia finché, al sesto mese, viene data in affido a Claudio e a sua moglie. Coi quali resterà per quindici mesi. Felici. A un certo punto, un giudice del Tribunale dei minori, evidentemente informato di come sta crescendo la piccola, chiede ai due se abbiano pensato all’adozione. Claudio e Cinzia sanno di avere qualche anno in più rispetto a quelli previsti dalla legge per chi adotta figlioletti così piccoli. Ma il giudice spiega loro che «si potrebbe procedere verso una adozione speciale/nominale».
Neanche il tempo di sperarci e arriva la doccia fredda: Micha andrà in adozione a un’altra famiglia. I due non capiscono: «Il pediatra si arrabbia quando lo informiamo, dice che dobbiamo prendere un avvocato, questa bimba ha già sofferto tanto nella sua breve vita, ora ha raggiunto un equilibrio, un ulteriore passaggio in un’altra famiglia sarebbe distruttivo. Dice che, se veramente le vogliamo bene, dobbiamo fare di tutto affinché Micha resti dov’è». Portando a sostegno varie testimonianze, cercano di spiegare al presidente del tribunale che la cosa non ha senso e potrebbe danneggiare la bimba: Risposta: «Vi ringraziamo per quello che avete fatto, l’adozione speciale è prevista in casi particolari, questa bambina ha migliori opportunità di vita, ci sono coppie che hanno una domanda di adozione da tre anni quindi con più diritti di voi». Ma come: i diritti di una coppia che desidera un figlio, per quanto diritti legittimi, vengono prima di quelli della creatura che è in ballo? Per carità, magari l’inserimento della piccola si rivelerà alla lunga positivo (l’inizio, a leggere Claudio e Cinzia, è stato traumatico), ma il tema resta: andava privilegiato il bene della bambina o i diritti degli aspiranti genitori? E non sarebbe opportuno un po’ di buon senso, in casi come questi, per evitare questi traumi ai piccoli? Il guaio è che di casi così ce ne sono diversi.
Prendiamo quello di Mathias raccontato da Daniela Assembri: «Durante le feste di Natale del 2005, sono passata dagli uffici dei Servizi sociali del Comune della mia città ed ho chiesto se c’era un bambino che avesse bisogno del calore di una casa, per Natale. Avevo già avuto due esperienze di affido e in quegli uffici mi conoscevano. L’assistente sociale mi ha subito proposto un bambino nato da pochi giorni e ancora ricoverato nel reparto maternità dell’ospedale. La giovane famiglia aveva dei problemi. Ho detto di sì con entusiasmo. Mi avrebbero fatto sapere. A metà gennaio 2006 mi confermano l’affido. E così due operatrici dell’Ufficio minori mi portano a casa Mathias, avvolto in una copertina; mi danno alcuni ragguagli sul latte e sugli incontri da fare con i genitori e se ne vanno». Da quel momento, per due anni abbondanti (i due anni fondamentali per la vita di un bambino, quelli in cui impara a camminare, parlare, mangiare, giocare…) lo Stato mostra di fidarsi ciecamente della donna, che è single e vive da sola, senza un marito o un compagno. Una delega piena, totale: «Le assistenti sociali non sono mai venute a casa mia, non hanno mai visto l’ambiente di Mathias, il suo gatto, i suoi giochi, le persone che mi hanno aiutato ad allevarlo (in particolare mio fratello) o che lo hanno tenuto con tanta attenzione e affetto (i miei cari amici)». Finché il giudice decide che il bimbo «parcheggiato» dalla signora Daniela (la quale per lui ha fatto mille rinunce adattandosi all’incertezza burocratica: «Gli compro già il lettino o basterà la carrozzina? E il box? E il girello? E un seggiolino più grande per l’auto? E un nuovo passeggino? E le vacanze? E il mio ritorno al lavoro dopo la maternità? E l’eventuale iscrizione all’asilo?») va dato in adozione. A Daniela? Neanche a parlarne: Mathias le sarà anche affezionato e lei si sarà spesa l’anima per essere una buona mamma, ma santo cielo: non è sposata! Non ha un marito! Per lo Stato va bene come parcheggiatrice, non di più. Ha tirato su lei il bambino e passato lei le notti in bianco quand’era malato e gli ha insegnato lei a dire «mamma» e gli ha mostrato lei la prima volta la luna? Stia al suo posto! E poi tutte quelle domande alle assistenti sociali: cosa sarà del bambino? Dove andrà? La nuova mamma e il nuovo papà sono a posto? Gli vorranno bene? Diamine: non son mica fatti suoi! Conclusione: il piccolo viene tolto a quella che fino a quel momento è stata sua mamma praticamente senza un passaggio delle consegne: «Non ho mai incontrato la famiglia adottiva, pare che sia stata la famiglia stessa a non volermi conoscere».
È giusto così? Vale per Daniela la single, vale per famiglie tradizionali in senso pieno. Come quella, racconta il sito della Gabbianella (www.lagabbianella.org) che accolse la piccola A. e i suoi fratellini: una coppia con «ben cinque figli naturali, che per undici anni ha accolto in affidamento dei bambini, accompagnandoli poi verso altre famiglie adottive o nella loro stessa famiglia naturale». Anche questi genitori «usa e getta»: utilizzati dallo Stato per parcheggiare i tre fratellini e poi scartati per l’adozione di A. (affidata loro quando aveva meno di due mesi) nonostante il parere contrario del Tutore dei minori e del neuropsichiatra, entrambi schierati perché la bimba non venisse spostata dall’ambiente in cui era cresciuta. Per questo «La Gabbianella» presieduta da Carla Forcolin, autrice di più libri sul tema (uno per tutti: Io non posso proteggerti) ha avviato una raccolta di firme per chiedere ai parlamentari un ritocco, messo a punto dall’avvocato Lucrezia Mollica, alla legge 184/83 che regola la materia: «Qualora l’affidamento di un minore si risolva in un’adozione, a causa del mancato recupero della famiglia d’origine, vanno protetti i rapporti instauratisi nel frattempo tra affidati e membri della famiglia affidataria. Va quindi favorita la permanenza del bambino nella famiglia in cui egli già si trova; ove ciò non sia possibile, va comunque tutelato il mantenimento di un rapporto affettivo con la famiglia affidataria, nelle forme e nei modi ritenuti più opportuni dagli operatori, dopo aver ascoltato la famiglia affidataria stessa e la futura famiglia adottiva». Buon senso. Solo buon senso.
di Cristiano Guarneri, da “il sussidiario.net“, 20 aprile 2010
“Ho 4 figli in affido ma sono un vero padre. Non un parcheggiatore”
Caro direttore,
aleggia un pesante, doppio equivoco nelle storie raccontate dal Corriere della Sera in un articolo intitolato “Bambini prima affidati e poi tolti, l’Italia dei genitori ‘usa e getta’”. La tesi di fondo, suffragata da episodi di mala-giustizia minorile, è la riduzione dei genitori affidatari a luogo di “parcheggio” temporaneo, scartati con cinica brutalità una volta rientrata l’emergenza e profilatasi all’orizzonte una coppia adottiva con requisiti apparentemente più idonei dei loro.
È pur vero che è lo stesso istituto dell’affidamento a prevedere, presto o tardi, il distacco del minore dal nucleo che fin lì ha fatto le veci di mamma e papà naturali. Ma qualora si presentasse la possibilità di adottare il minore, troppo spesso – denuncia il quotidiano di via Solferino – la scelta dei Tribunali tende a escludere la coppia affidataria, nonostante la disponibilità di questa all’adozione. Il tutto a grave danno del minore, cui si chiede un secondo distacco dopo aver subìto un primo abbandono, e di mamma e papà affidatari, che vedono reciso un rapporto costruito a prezzo di sacrificio.
Scelte ingiuste e di poco buon senso, osserva il Corsera. La soluzione proposta è tutta, ancora una volta, nelle mani del legislatore: modifica della normativa a favore dei genitori affidatari cui si concede una via preferenziale “qualora l’affidamento del minore si risolva in adozione”.
E l’equivoco dove sta? Non mi soffermo sull’ipotesi di un cambiamento legislativo, probabilmente sensato. Tanto meno nego che, in alcuni casi, le scelte dei Tribunali producano più danni che benefici. C’è una svista, però, che pesa tutta sulla natura stessa dell’affido, sulla sua “vocazione”. L’accoglienza temporanea di minori non è e non può diventare una scorciatoia per arrivare ad adottarli (equivoco di natura giuridica). Né, di conseguenza, si può pretendere che i sacrifici patiti per tirar grande il frugoletto accolto siano in qualche modo da “ripagare” per forza: gli ho voluto bene fin qua, lasciatemelo (equivoco di natura educativa e culturale). Il punto è la ragione dell’accoglienza.
In casa mia girano da sei-sette anni i miei quattro figli. Tutti accolti e tutti e quattro in affido. Con storie e famiglie di origine differenti. Con temperamento, indole, livello di attaccamento talvolta opposti. Persino nello stato di salute c’è un abisso (il più piccolo è cerebroleso grave). Non mi è ancora toccato assistere al loro rientro nel nucleo naturale; né mi è capitato di vederne adottato qualcuno.
Eppure non passa giorno in cui non tocchi con mano ciò a cui appartengono. La loro profondissima e inestirpabile origine: un altro padre, un’altra madre. Da cui hanno ricevuto quel particolare viso, quel timbro di voce, quella timidezza o quella sfrontatezza insopportabile che non hanno niente di mio. Portarseli in casa ha voluto dire accogliere tutto di loro, anche quelli a cui sono stati tolti: mamma-papà-nonni-zii-zie, che talvolta ci ritroviamo ospiti il sabato a pranzo o la domenica per una giornata intera.
Pian piano scopri che la frase “accompagno mia figlia da suo padre” non è roba da schizofrenici. Perché la fanciulla è ugualmente “mia” nonostante l’abbia fatta un altro, ma non è “mia” fino in fondo perché di mezzo c’è sempre un altro (e da quell’altro è destinata a tornare). Si impara, pian piano, a rinunciare al possesso (qualche traccia ti rimane sempre addosso…) e a trattare i figli accolti come il tesoro più prezioso.
Impari a non pretenderne in cambio qualcosa, perché la caparra è già lì, nella grazia che ti è data di essere padre. Padre per un tempo breve e sconosciuto. Finito il quale ci si scopre un po’ come i servi del Vangelo: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili”.
Si impara tutto questo se lo si vive per primi sulla propria pelle. Se, cioè, nella vita di chi fa accoglienza, esiste qualcuno che li tratta con un amore incondizionato. L’improvvisazione non regge. I buoni propositi ancor meno.
Presto o tardi i miei figli se ne andranno. Chi in un modo, chi in un altro. Chi per una ragione (magari priva di senso), chi per un’altra (il mio piccolo ha una aspettativa di vita molto bassa). Non mi sarò sentito un “parcheggiatore”. Né usato e poi gettato. Vivrò l’orgoglio di dire che ne sono stato il padre. E se di loro perderò le tracce, saprò che ci rivedremo – se ce lo saremo guadagnati – in paradiso.