Alle volte, la strada si fa incidentata. Di fronte alle difficoltà, la prima tentazione è quella di avere la stessa reazione che si ha di fronte agli oggetti tecnologici che costellano la nostra esistenza: dopo un po’, viene il momento di cambiarli. Del resto, non conviene aggiustarli: il prezzo non giustifica tale operazione. Per gli oggetti, naturalmente!
Ci sono storie che invece richiedono cura, attenzione, delicatezza, tenerezza, passione e intraprendenza: quella che prende avvio dall’iniziativa di un Dio generoso che lancia una sfida gigante ai sogni bambini e adolescenti di una vita che si affaccia al limitare del disegno del proprio compimento, tra paure, dubbi, perplessità e quella testardaggine atavica che è parte intrinseca del curriculum vitae di ogni montanaro, abituato all’asprezza di ogni conquista che le vette pretendono generosità di risposta a chiunque le ami.
“Guardare un Gran Premio alla TV è molto più divertente che correrlo” ebbe modo di dire Ayrton Senna. Io non credo al masochismo nelle scelte: ciò che è scelto, nella vita, ha sempre un perché. E anche quando apparentemente sfugge o, quanto meno, non sembra del tutto afferrabile, il motivo principale è la ricerca della gioia. Diciamolo, anche personale. Dio ci chiedi di essere santi, che è il modo per essere felici, altro non ci è richiesto. Le modalità sono nuove, diverse e particolari per ciascuno, perché lo Spirito suggerisce sempre nuove forme che si adeguino alla sua fantasia e seguano i lineamenti mai uguali della bellissima, multiforme varietà degli esseri umani.
È buffo pensare quanto un giovane sacerdote (nonostante siano già passati dieci anni, nella mia mente è impossibile pensare, anche lontanamente a una definizione diversa perché, se chiudo gli occhi e ricordo la prima volta che ci siamo incontrati, ciò che abita la mia mente è un sacerdote convinto e convincente, eccentrico solo alla prima impressione e soprattutto pienamente consapevole della propria missione) possa insegnare con la propria vita. Sono state – tutto sommato – poche, anche se schiette, sincere e mirate le volte in cui c’è stato un confronto a quattr’occhi oppure un’occasione di sentirlo predicare. Le nostre strade si sono incrociate più volte, ma sovrapposte mai.
Nella sua fatica di aderire a quello che era la scommessa di Dio, io vedevo dipanarsi, con grande tenerezza la storia di un giovane uomo che si faceva grande nel farsi piccolo. E tornare piccoli, quando si è grandi, non è mai un cammino facile, soprattutto se si ha la caparbietà di un carattere alla “don Marco” come marchio di fabbrica.
Dai suoi occhi, potevi intravvedere l’abbattersi delle tempeste, insieme con la calma che ne seguiva, l’inquietudine del cuore e il turbinio dei pensieri, la rincorsa di sempre nuovi traguardi, la disdetta per quelli falliti e la sincera commozione di fronte al dolore dell’uomo che interroga la vita di ognuno. Sì. Preti compresi.
Forse troppo impregnata di una concezione “borghese” per cui il sacerdote necessita di essere portato in palmo di mano, a prescindere, coi posti migliori assicurati (nelle piazze, a teatro o in tavola) e la venerazione dovuta a dei moderni dottori della legge, quasi supereroi dai poteri speciali, ho da sempre rischiato di avere un’idea distorta di chi fosse il sacerdote e cosa avesse da dire alla mia vita. Ci ha pensato lui a proteggermi da questo rischio. Prima ha instillato il dubbio al riguardo, frantumando le (apparentemente) inossidabili certezze, poi ha costruito, a poco a poco, nuove prospettive: più della priorità che esigono le autorità, c’è bisogno della delicatezza della comprensione, più che i privilegi simili a quelli che si concedono alle persone importanti, è apprezzabile conservare un posto speciale nel proprio cuore, assicurare un’amicizia costante nel tempo, condita dalla bellezza delle cose semplici e genuine. Ci sono persone della cui presenza ti accorgi a stento, tanto sono discrete: spesso però la loro importanza è inversamente proporzionale alla loro visibilità: essere prete come don Marco, con quella radicale serietà unita a una scanzonata determinazione, comporta la necessità di avere un team vicino a lui capace di comprendere i percorsi della sua anima, comprendendo però, anche, la necessità di non comprimerne gli spazi, così da permettere alla sua creatività di escogitare nuove soluzioni, nonostante le pressioni del momento (o, forse, proprio in forza di ciò!).
In dieci anni non ti sei fatto mancare nulla: viaggi intercontinentali dentro e fuori dalla tua anima, le prime pagine di riviste e telegiornali (per assurdo, proprio per aver rifiutato di entrarvi a titolo gratuito!), ma soprattutto mi piace sottolineare la grande tua avventura quotidiana: percorrere l’abisso del dolore, addentrarti tra le conseguenze del Male come un minatore che aspira alla luce e, per vincerne la nostalgia e suggerirne ai suoi compagni di quotidianità la bellezza, non ha altro che una lanterna, per far fronte all’oscurità e al senso di vuoto che attanaglia la gola. Portare speranza a chi sa che potrebbe non rivedere la luce del sole oltre le sbarre di un carcere, dare voce a quegli uomini dimenticati dagli uomini (ma non da Dio!) perché è troppo impegnativo pensare che il dolore, quando è attraversato, può essere superato. È più facile spostare, accantonare, togliere volto alla sofferenza e liberare i nostri giorni dal peso che avvertiamo potrebbe apportare al nostro vivere.
Ci vuole coraggio ad affrontare l’abisso, ma il coraggio massimo è constatare che non ci sono differenze nel cuore dell’uomo: che al ritmo dei suoi battiti si costruiscono sogni, progetti, aspettative, che domandano ascolto e comprensione. Noi e loro. Più spessi dei muri in cemento sono a volte i muri dell’indifferenza e dell’incomprensione, che s’ergono ancora più alti, di fronte all’esperienza più assurda (in apparenza) e toccante (nel profondo): è proprio dietro alle sbarre che è possibile, anche più che fuori, assaporare autenticità, rispetto, stima , sensibilità. Senza voler fare alcuna idealizzazione, questo è. E la possibilità di dare a tutto voce, con semplicità e franchezza, ma anche iniziative concrete, è un segno forte che contrasta la tentazione di vivere la fede come soprammobile per castelli dorati, incapace quindi di entrare in dialogo con altri mondi che non siano le solite, a volte un po’ ingessate, realtà d’oratorio in cui tanti giovani, ancora oggi, crescono.
Vivere in un mondo sommerso ed essere cireneo della gioia di Cristo significa coltivare la capacità, impegnativa e delicata, di farsi presenza, impercettibile ma costante di un Dio tenace che guarda al cuore dell’uomo proprio quando è egli stesso il primo a darsi per spacciato e irrecuperabile.
E stavolta il traguardo si fa importante. Sono proprio dieci!
Tanti auguri, don Marco, sacerdote di Cristo!
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