Certe espressioni – “la certezza della pena”, “in Italia l’ergastolo non esiste più”, “non è questo il momento” – somigliano ai vecchi proverbi: a pronunciarli senza conoscere la realtà, rischiano di inaridire fino a svuotarsi di significato e tramutarsi in slogans. Pronunciarli tenendo i piedi nella realtà, permettono di accendere l’eco degli orizzonti ai quali additano. La parola “ergastolo” (magari accompagnato dalla pesantezza dell’aggettivo “ostativo”) non è un proverbio: è una realtà drammatica e disumana che in Italia tocca e segna la vita di oltre 1500 detenuti. Di riflesso – e questo sovente sfugge alla riflessione – di 1500 famiglie che convivono, strette e costrette, con il ferro e il cemento delle patrie galere e della loro illogica burocrazia. Storie la cui esistenza è sempre in forse.
Le parole di Francesco più che di luce sanno di verità: nel suo magistero – costruito con gesti e parole – non ha mai abbinato al tema della periferia l’urgenza dell’elemosina. Ha osato spingersi oltre, congiungendo la periferia alla possibilità di una maggiore verità su se stessi. Quasi che essa funga da specchio per contemplare il grado di civiltà che l’uomo è in grado di far maturare. Il suo intervento sull’ergastolo – e sulle dinamiche della carcerazione preventiva – altro non è stato che un ricordare la splendida fusione di orizzonti operata dal cristianesimo in merito ala gestione dei problemi sociali: l’ordine della giustizia congiunto con quello dell’amore. Nella più splendida continuità con le parole di San Tommaso: «La misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione, la giustizia senza misericordia è crudeltà». Di una cosa si dice che è bella perché lascia trasparire un connubio di ordine e di misura. La visione della giustizia di Francesco è sulla stessa lunghezza d’onda: chiede di custodire la «proporzionalità delle pene» in una società pressata e stressata da «mezzi di comunicazione, da politici senza scrupoli e dalle pulsioni di vendetta». Francesco è un uomo dalla doppia direzione: ha i piedi nell’orizzonte della storia, lo sguardo nel verticale del Mistero. E questo gli permette di capire che gli ergastoli, prima che nei tribunali, vengono inflitti nei giornali. Laddove certe parole – il cui uso chiederebbe la finezza di un cesellatore più che la sveltezza di un magazziniere – suonano già come anticipo di condanne.
Un conto sono le opinioni e un conto è la consapevolezza delle cose: nel mezzo di questa forbice abita il dramma di una frangia d’umanità doppiamente ferita. Abitano la periferia ignominiosa e intraducibile della detenzione, laddove appare chiaro – a chi ha il coraggio dell’incontro – che la prima vittima di un delitto è chi l’ha compiuto. Francesco ha il fiuto del pastore: le pecore smarrite delle galere gli hanno lasciato come gesto d’appartenenza il loro odore. Ecco perchè le parole del Papa oggi sanno forse un odore sgradevole: perchè il Papa, prima che favorire l’abolizione dell’ergastolo, ha dato luce e spessore a coloro che, ergastolani, sono diventati ombra di loro stessi. «Uomini ombra» come si raccontano nei loro scritti: frammenti d’uomo per i quali “ergastolo” non è solo una parola. E’ una sottrazione che moltiplica la paura: d’essere rimasti soli dentro un mondo sovraffollato. Senza più affetti e carezze, sguardi e confidenze, presente e futuro. Senza più speranza: quella che non è solo attesa di un futuro migliore ma, prima ancora, possibilità di trasformare il presente alla luce di una promessa di futuro: «È’ un errore giudicare l’uomo come fate. Non c’è amore in voi, ma soltanto un severo senso della giustizia; perciò siete ingiusto» (F. Dostoevskji). Cambiare le regole che governano il mondo non è dunque follia e nemmeno utopia: è semplicemente giustizia. Che per essere bella necessita il rispetto di un’unica misura: “pro homine”. Prima l’uomo.
(da Avvenire, 25 ottobre 2014)