Ha vinto praticamente tutto. E vincendo, praticamente tutto il vincibile, si è potuto permettere tutto. Più del “tutto” della somma di tantissima gente normale. Per questo, forse, mi hanno colpito le lacrime di Cristiano Ronaldo dopo il rigore sbagliato (Ronaldo che sbaglia un rigore!) nella partita del suo Portogallo contro la Slovenia. Non l’ho mai amato come calciatore – troppo simile l’arroganza che da punti diversissimi ci accomuna – ma finisco per innamorarmene al tramonto della sua carriera. A farmi incantare sono quelle lacrime capaci di nascondere una “fame da lupi” anche sul calare di una carriera indigesta di goal, trofei, varie ed eventuali. La fame che, dopo aver sbagliato un rigore, lo fa ritornare su quel medesimo dischetto per calciare il primo dei rigori che decideranno la sorte del suo Portogallo. Stavolta, però, segna: è la passione che supera il destino, la più bella dichiarazione d’amore per lo sport che l’ha reso ciò che è. Gigantesco.

Poi, dopo aver segnato, corre sotto la curva dei suoi tifosi per porgere loro le scuse del rigore mancato: solo la leggenda trova nell’archivio delle sue gesta il coraggio di chiedere scusa. Solamente chi ha paura trova in sé il coraggio di sbagliare. Quelle scuse, condite di lacrime, sono l’autobiografia di un campione che, piaccia o no, ha saputo mantenere accesa la fame famelica del bambino di una volta. Perchè ritornare sul dischetto per calciare un rigore appena dopo che quel portiere te ne ha parato uno – e riuscire a calciarlo alla perfezione – dice sì l’ossessione per la perfezione, la sete della rivincita, la coscienza del grande capitano che non abbandona la nave neanche se la faccia è bagnata di polvere. Scrisse il suo conterraneo, Josè Saramago: «Abbiamo tutti i nostri momenti di debolezza, per fortuna siamo ancora capaci di piangere. Il pianto spesse volte è una salvezza: ci sono circostanze in cui noi moriremmo se non piangessimo».

Chiede scusa come un dilettante alle prime armi, uno che abbia appena cominciato a calciare il pallone in un campetto di periferia. Uno così, con una fame così, non può che fare la differenza. E si finisce anche a perdonargli tutta l’arroganza ossessiva che l’ha reso gigantesco: il fatto di vivere il calcio come una forma di mandato divino, una sorta di evangelizzazione, la sua vera ragione di vita. Perchè di questo si tratta: di un ragazzo che, alla soglia dei quarant’anni, ha scritto un promemoria di chi eravamo noi italiani tempo fa: un po’ tutti affamati come Ronaldo. E che oggi, guardando l’Europeo di calcio, non siamo più. Non so se al mondo esistano parole altrettanto eloquenti di una lacrima. Una scusa.

(da Specchio de La Stampa, 7 luglio 2024)

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