I sassi nelle scarpe
Sulla soglia della porta, al cambio dell’ora, lo scambio di alcune confidenze ricevute, delle impressioni e riflessioni scaturite in merito, sono state l’ennesima scintilla per dare voce a tutti quei pensieri che, da tempo, mi girano dentro. Sono sempre lì.
È necessario siano sempre lì, perché senza questi continui sassi nelle scarpe entrare in classe sarebbe solo un lavoro di efficienza. Ma insegnare, entrare in aula ogni mattina, guardare dritto negli occhi 20-25 alunni ogni ora, non può essere solo l’automatismo di una catena di montaggio.
I nostri alunni, senza saperlo, ci fanno domande scomode, più o meno esplicite, più o meno consapevoli. Le loro storie ci toccano, ci chiedono risposte, ci guardano di nascosto senza farsi vedere, ci osservano quando noi non ce ne accorgiamo, ci sfidano, spesso anche ci ascoltano anche quando a noi sembra di parlare solo con i muri.
Domande, anche per noi adulti
Quante delle domande che loro vivono interpellano anche noi adulti? A quante abbiamo già trovato una risposta solida, resistente? A quante sfuggiamo anche noi, invece? Mi rendo sempre più conto che mi ritrovo a scegliere come stare in classe, come entrarci.
È chiaro che io e loro abbiamo ruoli molto diversi, ed è bene e sano e giusto che sia così. Anzi, devono trovare in me, in noi adulti, esempi a cui ispirarsi o da cui lasciarsi abbracciare con le parole, con gli sguardi, con le regole.
Ma questa dinamica così complessa e affascinante e spesso inconsapevole (per entrambe le parti) io la tengo sempre fissa davanti ai miei occhi? So come entro a scuola ogni giorno da donna adulta? Nel senso, ci entro da donna consapevole di chi è, da donna che di fronte alle domande che i ragazzi pongono si lascia provocare o ha già provato a trovare una risposta perché la vita gliel’ha già sottoposta? Oppure faccio finta di niente?
Ascolto, ma poi non lascio che quegli interrogativi mi intacchino o mi disturbino?
Una risposta che latita
Non c’è una riposta eticamente e deontologicamente corretta. Anzi. Spesso anche noi adulti stiamo attraversando le nostre battaglie ed è difficile trovare le forze per restare in classe quando il cuore o la testa sono impegnati nelle proprie lotte. A volte penso che sarebbe più semplice fare un lavoro in cui io possa rimanere tutto il tempo dietro allo schermo di un pc, ad esempio, e non un lavoro di continua relazione, tra pari e con dei ragazzi. Lavorare a scuola è davvero complesso, potrebbe essere molto denudante.
Domande che ritornano, per tenerci in cammino
E proprio per questo ripropongo la domanda: come ci sto davanti alle provocazioni dei miei alunni? Innescano in me processi di ricerca di nuove risposte? Quelle dentro di me, innanzitutto. Davanti alle prove che la vita mette loro di fronte: la morte, la malattia, la separazione, i traumi, trovano il vuoto in noi adulti? Mi sembra, e lo dico solo rifacendomi a ciò che vivo sulla mia pelle e a ciò che osservo attorno a me, che se anche noi adulti non facciamo i conti con le loro stesse domande ci è difficile provare a restituire parole di speranza.
È una strada che spaventa? Sì, molto.
Potrebbe destabilizzare anche noi con ciò che troveremo? Sì.
È necessario farlo? Qualcuno ci obbliga a farlo? No. Ma mi sto rendendo sempre più conto che solo se anch’io ho attraversato quel dolore, quella strada, quella fatica dentro di me, posso per lo meno guardare dritto negli occhi i miei alunni, senza abbassarli. Potrei non avere la risposta, ma posso fare la strada con loro per cercarla, con timore, ma senza paura perché è una strada che ho già percorso anch’io. E forse potremmo mostrare loro la bellezza che non sono soli, nemmeno quando le domande della vita mettono all’angolo.
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