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Mi metto il giubbotto, carico con uno slancio lo zaino sulla spalla destra, sento i libri che mi colpiscono la colonna, assieme al sasso (che ho preso a Cafarnao, tuffando la mano nel lago, e che ho fatto vedere ai ragazzi di seconda). Cerco le chiavi nella tasca destra, c’è anche una mascherina che non ho più messo e un paio di galatine. Fuori splende il sole e la brina rifulge nei campi. Saluto mia moglie e mia figlia con un bacio. Le altre due sono già sui banchi. Salgo in macchina, sento il profumo del cedro della Virginia che ho comprato qualche giorno fa. Vado a scuola.
Sono uno dei pochi che non fanno didattica a distanza da casa. Mi sarebbe molto più comodo, a dire il vero, solleverei mia moglie da diverse faccende, potrei dormire un po’ di più, mangiare prima. Ma non mi va. Andando a scuola, nelle aule vuote, mi sembra di portare avanti una mia forma di resistenza, un po’ romantica forse, di resistere, in un certo senso, a una sorta di disgregazione scolastica che avviene su più fronti. Mi sembra di poter dire, così facendo, che la scuola è viva, che non ci siamo arresi, né tanto meno accomodati. Per cui, preferisco scomodarmi un po’.

Ho dodici chilometri di strada da fare, prima di arrivare al liceo in cui insegno. Niente musica al mattino, solo preghiera, poca a dire il vero, perché la strada è scorrevole, e in quindici minuti sono nel parcheggio. Fedele discepolo di santa Teresa di Lisieux, solitamente conduco un colloquio più o meno serio con Abbà, altrimenti, in altri giorni, inizio con il Vieni santo spirito. Lo invoco per la mia famiglia, per me. Poi passo alle preghiere a san Giuseppe, a Maria. Lì, prego per tutti, anche per i miei studenti che, pur entrando in classe, non vedrò.

Varcata la soglia della scuola, prendo il gel disinfettante dall’apposito tavolino, saluto i collaboratori scolastici e mi avvio verso l’aula insegnanti.
C’è silenzio, nella scuola, ed è una scuola enorme. Giunge solo qualche voce dalla segreteria, riconosco il tono di un paio di colleghi.
Salgo le scale fino al primo piano. Saluto il collaboratore che se ne sta al suo tavolo.
I corridoi sono vuoti, silenziosi. Non mi giunge nemmeno la voce di qualche altro docente che stia svolgendo la sua lezione in qualche classe.

In questo preciso istante, non vedendo nessuno, camminando verso l’aula, in testa prende vita un ritornello, senza che io ci abbia pensato troppo. Semplicemente così, parte questo motivo, come un disco in vinile che cominci a girare per mano di qualcun altro. Per me una sorta di colonna sonora, in questi strani mesi scolastici.
È una canzone di Mina, Città vuota, che attacca con quel ritmo blando e caldo, con i cori, per lasciare poi spazio alla voce incantevole della Divina. Solo che nelle prima strofa, dove comincia cantando le strade piene, a me viene spontaneo cantare, nella mista testa, le aule vuote/silenzio intorno a me. Lo ripeto un paio di volte. Poi, canticchiati questi due versi, passo direttamente alla fine, dove sostituisco ma so che la città/vuota mi sembrerà/se non ritorni tu, con ma so che la classe, vuota mi sembrerà, se non tornate voi. Con esiti evidentemente meno felici per quanto riguarda rime e sonorità.
Mi sembra proprio così, la scuola, in questi mesi in cui non ho visto nessun alunno in presenza, una città vuota, senza i suoi abitanti, senza coloro che ogni docente dovrebbe amare.

Entro in classe, la 3C. Per me, in questi mesi di serrata didattica a distanza, quasi un luogo dello spirito.
È uno strano spettacolo, quello dei banchi di scuola vuoti.
C’è silenzio anche qui, riesco persino a sentire l’acqua dei radiatori, la tensione di un cavo elettrico, o chissà cos’altro, da qualche parte, nel soffitto, dentro al muro, non lo so. Da poco lontano, oltre il grande giardino del liceo, giungono voci di bambini che giocano, forse è merenda, forse sono in pausa dopo la mensa. Loro sono in presenza, io sono a distanza.
Accendo il computer, preparo le mie slide, i miei questionari, i miei link, le mie immagini. Getto lo sguardo oltre le finestre, poiché lo schermo è posto in modo tale che io, alzando appena gli occhi, possa guardare fuori. Ci sono due grandi platani, nudi, bianchi, immobili e muti come quest’aula. I ragazzi non ci sono, sono a casa.

Non sono mai stato un paladino della didattica a distanza, ma non sono nemmeno uno di quelli che la stigmatizzano, come fosse il male peggiore che potesse capitare. Io stesso, d’altra parte, non posso negare la straordinaria comodità di insegnare così: niente più materiale da stampare, fogli da consegnare, nomi da ricordare e, aspetto affatto banale, niente più chiacchiericcio o lezioni disturbate. È tutto nel computer, tutti possono vedere tutto attraverso lo schermo, comodamente da casa, dalla loro cucina o dalla camera da letto che sia. È davvero comodo, non lo posso negare, forse troppo comodo.

Perciò: né pro, né contro, semplicemente dico: a me mancano i ragazzi, perché quando instauri una relazione d’amore, uno schermo vale quel che vale.

Io ho bisogno degli alunni di fronte a me, in classe. Ho bisogno di educarli, di condurli fuori o di trarre fuori da loro, come vuole l’etimologia del verbo, nel senso più profondo e per far ciò non devo avere uno schermo come filtro, o delle casse che mi consegnano una voce alterata, a volte incomprensibile. Devo guardarli negli occhi, sentire chiara la voce, percepirne il fiato. Perché uno dei rischi della didattica a distanza, di cui non si è troppo parlato, è quello di rendere evanescente il corpo, di scordare che siamo anime carnali, come direbbe Péguy. Perché noi, prima di tutto, siamo proprio questo, un’anima incarnata, cioè un corpo e un’anima inscindibili, e se io non ho la tua corporeità di fronte a me, in qualche maniera la relazione è monca, privata di qualcosa, dell’essenziale direi, per quanto la didattica a distanza possa essere efficace e proficua. Ma appunto per questo non si tratta solo di didattica, si tratta di educazione e questa non può non passare attraverso il corpo presente di un alunno, del suo esserci fisicamente, e perciò pure spiritualmente, davanti a me.
Mi si potrà dire che pur loro ci sono, in una qualche maniera, ma io dirò che no, non ci sono completamente, perché: dov’è il suo corpo? Dov’è l’alunno? 
Sono tre mesi che non li vedo. In fondo all’aula, appesa all’appendiabiti, sta la sacca con le scarpe di educazione motoria di un alunno. Le ha dimenticate a suo tempo e sono rimaste lì. Però, questa settimana potrà riportarle a casa perché oggi, deo gratias, si torna tra i banchi, al cinquanta per cento, per carità, ma quantomeno la città non sembrerà più così vuota, così silenziosa.  

Ed eccolo che parte, per l’ennesima volta, il ritornello di Mina. Amen. Così sia, in questo anno anomalo di vita scolastica, dove si resiste in qualche maniera e la scuola la si fa, bene o male, a distanza o in presenza. Viva i ragazzi. Viva la scuola. Sempre.

Alberto Trevellin (Padova 1988), laureato in scienze religiose prima a Padova, poi a Venezia, è insegnante di religione. Sostiene che i bambini salveranno il mondo e che senza di essi non potrebbe vivere. La mattina, quando si sveglia, guarda verso il monte Grappa, per il quale ha un amore smisurato. Ama camminare tra le alte cime delle Dolomiti, correre in mezzo ai boschi, andare per sentieri sconosciuti. È sposato con una donna che crede affidatagli da Dio e ha due bambine bellissime quanto vispe.

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