La notizia era di qualche tempo fa. Non mi aveva incuriosito più di tanto: un po’ innervosito, mi aveva, lo spazio che le era stato dato. Forse era l’ennesima provocazione, in un tempo in cui vince chi la spara più grossa, chi si spinge più in là (non importa se poi, vigliaccamente, ritira la mano): importa fare notizia. La riporto per “diritto alla smorfia”: si trattava di una proposta della confessione col Gesù virtuale, una sorta di gamba tesa dell’intelligenza artificiale dentro il cuore del Mistero cristiano. E’ stato uno dei nostri ragazzi carcerati – che sono ancora lì a ritagliarsi i pezzi di giornale, come una volta! – a riportarmela all’attenzione. Gli rispondo: “Immagina ci sia questo schermo nella sacristia dove confesso. Ne approfitteresti?” La risposta di quello che, se non lo conosci, lo bolli come lo scemo del paese, essendo in carcere: “Io ho bisogno delle smorfie del prete per vedere riflessi i miei sbagli”. Se al posto della parola sbaglio avesse pronunciato la parola peccato, avrai usato questa sua risposta come titolo di un trattato di teologia sacramentaria, tant’era perfetto il concetto. Quando Dio decise di farsi carne – «Il Verbo di Dio si fece carne» (Gv 1,14) – dichiarò la necessità della carne perchè il Mistero attraversasse la storia. La carne di uno sguardo, di una smorfia, di un’esitazione. Di un leggero cenno del capo del sacerdote che, come quando lo vedi riflesso sul volto di un medico, ti dice “in diretta” il decibel, la misura, il peso di ciò che vai portando a Dio. Attraverso gli orecchi, lo sguardo, le mani sue.

Nessun peccato, anche se il nome è lo stesso, è mai identico: è un vestito su misura che ogni peccatore si cuce addosso. La stoffa può esser la stessa, la misura è personalizzata. “Come nel codice penale – aggiunge quest’uomo -: tu puoi commettere lo stesso reato di altri cento, ma è la strada fatta per arrivare a compierlo che fa la differenza”. In galera è chiaro: non basta conoscere il nome del reato compiuto per tentare di fare lo sgambetto al male. Sarà necessario – qui la fatica, la destrezza, l’amabilità di chi s’avventura – riuscire a cogliere i minimi particolari della strada percorsa prima di compierlo per individuare quella fessura attraverso la quale la Grazia deciderà d’incunearsi per sventrare il male. L’intelligenza artificiale, come tutto ciò che è dell’uomo, funziona per clichè: ha taglie standard, misure fisse, soluzioni adattabili a chiunque. Il Mistero, invece, è tale perchè si fa beffe di ciò che è di serie, omologabile, di serie. La soluzione del Mistero è nella frase di Paul Claudel: «Il cristianesimo si risolve in un faccia a faccia». La confessione è il sacramento più costoso, delicato: collaborare con Dio, dopo aver condannato il proprio male chiamandolo per nome, è manovra così delicata che in molti, per non volerne sentire parlare, la decretano inutile. E, dunque, sostituibile con uno schermo amorfo, inespressivo, a disposizione.

Bastasse confidare ad uno schermo le proprie nefandezze per ripulirsi dal male fatto, le prime ad aizzarsi contro (se ci pensassimo!) sarebbero le vittime dei nostri obbrobri. Dio, invece, nascosto nei panni del sacerdote è giusto senza apparire mellifluo: “Quello che hai fatto è male – ti dice dopo aver ascoltato non solo il male, ma anche la storia che l’ha partorito -, è diabolico, nefando, ne sei il responsabile: se puoi, ripara!” Questo potrebbe dirlo anche una voce registrata, però. E’ il seguito, infatti, ad essere esclusiva del Mistero e della sua voce sacramentale: “E’ male, ti ripeto. Però, adesso, non guardare più il tuo peccato: guarda Me”. Questo Volto che mi (ri)guarda, questa voce che mi invita ad un ritorno, la dolcezza di uno sguardo che consola. Di più. Quelle mani che, a mò di tetto, mi ridanno una casa a me che l’ho svenduta: «Dio Padre di Misericordia (…) ti conceda attraverso la Chiesa il perdono, la pace». Lo avverto pure io, nel mentre m’inginocchio vergognoso: non mi basta un orecchio che mi senta, ho il bisogno urgente di un orecchio che mi ascolti. E che mi dica una buona novella dopo che mi ha ascoltato. Magari con un sorriso di bentornato per conto di Dio.

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