Lui è un uomo avvezzo alle provocazioni, ma non sempre la provocazione lascia una scia di profumo al suo passaggio. Come quella volta che se ne esordì con la celebre doppietta “culattoni e lesbiche” giustificandola alla maniera dei bambini: “in Veneto si dice così”. Probabilmente la sindrome del protagonista stavolta l’ha spinto più in là del previsto, dimostrando un’incapacità netta e trasparente d’interpretare l’etica sportiva che anima il popolo dell’atletica. Cosicchè, nella sua mentalità regionale, la prossima edizione della Maratona del Santo non dovrebbe essere finanziata. Il motivo è presto detto: vincono sempre i neri, gli “extracomunitari in mutande” capaci di imporre ritmi faticosi da reggere al popolo bianco. E’ come se un organizzatore dicesse: “siccome noi non possiamo vantare atleti fortissimi, allora decidiamo di non invitare i più competitivi in modo da far vincere i nostri”. Senza sapere che è proprio quando in una gara la competizione e il confronto è altissimo che la vittoria chiede più sudore e maggiore capacità di concentrazione. Ma questo non tutta la politica sembra capirlo. E fa ridere anche i polli per due motivi.
Prima di tutto perchè questa è la “Maratona di Sant’Antonio”, uno dei santi più ecumenici che la storia della Chiesa possa vantare nella sua squadra (un non padano pure lui, tra l’altro). Un uomo di Dio pregato e venerato in qualunque angolo dei cinque continenti. E sotto la cui protezione viaggiano tutt’ora milioni di storie tra loro diverse per razza, cultura e appartenenza religiosa. Ripercorrere nella maratona l’ultimo tratto di strada da Lui compiuto verso Padova discriminando la pelle, toglie al fascino di questa storia millenaria la bellezza d’aver saputo riunire sotto il suo mantello uomini geograficamente distanti. Discriminare la griglia di partenza è rubare alla maratona quello che di più bello tiene nelle sue tasche, ovvero la capacità ecumenica che fa di lei una maestra accreditata a tenere lezioni di fratellanza universale alla Chiesa, alla politica e alla società intera. Perchè nessuna manifestazione umana riesce a far solidarizzare tra loro gli uomini e le donne come la corsa lunga, questa forma di ascesi senza religione. Perchè correre è condividere un pezzo di strada assieme, scambiarsi una bottiglia d’acqua, mettersi in scia l’uno dell’altro, stringere la mano a chi ti ha preceduto perchè più forte di te. Applaudirlo.
Eppoi questa proposta è imbecille perchè manifesta la voglia di non migliorare questa razza bianca che, unica tra tutte, si vorrebbe invece salvare. Togliere ad una competizione il più forte significa privare il mediocre della possibilità di migliorarsi, togliergli la fatica del rincorrere il meglio, non avere più un metro di paragone verso cui spingere i suoi sogni. Equivale, semplicemente, a privarlo di quella sana competizione che rende più forte l’uomo quando si confronta con i suoi simili. La storia ogni tanto riaggiorna, nella sua discrezione di madre e maestra, la pagina scritta il pomeriggio del 4 agosto 1936 quando un atleta di colore, Jesse Owens, costrinse il cancelliere Adolf Hitler ad alzarsi in piedi e salutare chi non avrebbe mai voluto nella sua Germania dura e pura. Assindustria Padova è troppo signorile anche solo per rispondere a quest’ennesima baggianata folcloristica. Sarebbe bello, invece, che quel giorno sulla linea di partenza i pettorali avessero tutti lo sfondo nero. Perchè se la Maratona tiene questo fascino è per quel drappello di neri che correndo hanno trovato il loro riscatto sociale. Mostrando all’uomo bianco che non è ancora Dio, nemmeno quassù.
Lo sport è una cosa seria. Meglio che quell’uomo parli di “poenta e osei”.