ansiaLa vittoria ha sempre molti padri, la sconfitta invece è sempre orfana. E’ una legge dell’umano alla quale non ha trovato scampo nemmeno Alex Schwazer, da giorni sotto il tiro incrociato di critiche, offese e rigurgiti di massa dopo essere stato trovato positivo all’EPO ad un controllo prima delle Olimpiadi. Tanto commovente la sua vittoria a Pechino, quanto deludente la sua scelta di imboccare una scorciatoia stavolta. Eppure dentro il dramma di una sconfitta sportiva di notevole spessore, rimane splendida (seppur costellata di punti ancora da chiarire) la conferenza stampa del giorno successivo: l’ammissione esplicita di colpa, il travaglio interiore di un ragazzo in seria difficoltà, le scuse ad un mondo che sente di aver tradito. E’ il primo caso di atleta che non accampa scuse, accettando pure la gogna mediatica: la carne del macellaio, le caramelle della zia Rita, la pomata dell’arrotino Pino, lo sciroppo della perpetua. Basterebbe già questo per chiedere scusa ad un ragazzo per aver infierito oltremisura sulla sua sorte: a nessuno è chiesto di giustificare il gesto compiuto, a tutti (visto che il suo oro quella volta fu di proprietà comune) viene chiesto di aiutare un ragazzo a ritrovare se stesso dentro un groviglio di emozioni, di rimorsi e di lacerazioni che l’hanno condotto sul ciglio di un baratro.
Della sua conferenza stampa rimarrà l’eco di quel grido d’aiuto scarabocchiato nel mezzo della sofferenza: la costrizione di correre anche quando la sua mente aveva detto stop. “Sapeste quante volte in famiglia ho detto ”basta, non ce la faccio più”, ma mi rispondevano che sarebbe stato un delitto sprecare tanto talento”. Perché la mente di un atleta è un marchingegno delicatissimo: quando dà il suo consenso l’atleta è capace della sopportazione più animalesca, quando è satura anche un centimetro in più diventa sofferenza inaudita. Spingere oltre l’acceleratore è violentare la passione, infierire sul talento, invogliare ad imboccare una scorciatoia: concorso esterno in associazione a doparsi. Facciamola diventare la “magna charta” per proteggere il divertimento dei bambini: smettiamola di volerli vedere campioni a tre anni e mezzo, condannarli a passioni che i grandi non sono riusciti a realizzare, schiacciarli sotto il peso di chi li vorrebbe già stelle nella loro fanciullezza. Alle tre c’è il torneo di basket o di pallavolo, alle cinque la gara di nuoto o di pattinaggio, alle sette il saggio di chitarra o di mandolino. E bisogna vincere, riuscire, sgomitare: “mamma, papà: non ce la faccio più!” – gridano loro. Eppure non sarà lecito loro fermarsi, nonostante non provino più divertimento da tempo.
A nascere fuoriclasse c’è da guadagnarci; ma anche tanto da mettere a repentaglio. Perché si pensa che al fuoriclasse basti il talento: pochi sapranno leggerci dietro la necessità di una vicinanza, il desiderio di una condivisione, l’aspettativa di poter fare una confidenza. Il padre di Schwazer ha chiesto scusa al figlio per non essersi accorto che stava male: un padre capace di metterci la faccia nel momento dell’oscurità. Per chi vorrà rimarrà una conferenza stampa da manuale: perché tolto il divertimento, anche quella che all’origine era una passione avvolta di sogni rischia di diventare una valanga che si stacca improvvisa. Il volontarismo titanico – slogan sul quale una certa morale cattolica continua a far leva – a volte è dannoso: non solo si fa del male a degli atleti, ma si feriscono anime inquiete, si isolano preti in difficoltà, si abbandona il sogno di Dio che in nessuna casa manchi la festa del cuore. Il volontarismo è tutt’altra cosa dalla motivazione: al primo s’aggrappa chi non sa parlare ai fuoriclasse genetici, del secondo s’avvalgono coloro per i quali l’uomo è pur sempre una scommessa da giocare. La confessione di Schwazer è una questione che va oltre l’universo sportivo: tira in ballo pure l’universo ecclesiale.

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