Cardinale-Carlo-Maria-Martini

Con occhi abitati da un afflato fanciullesco. Una vita intera spesa al servizio della Parola per poi, in punto di morte, scoprirsi mendicante della parola stessa, quella che gli permise di riuscire nella sfida più ardua: tradurre la forza dirompente di un messaggio “fuori dal tempo” in un linguaggio comprensibile hominibus bonae voluntatis, per farli sentire protagonisti di una storia che è tutt’altra cosa dalla monotona riedizione di un’avventura già scritta. Il Cardinale Carlo Maria Martini è stato questo e molto altro: un “mendicante con la porpora” – come l’ha tratteggiato in questi giorni qualcuno – capace di rimanere fedele alla sua Chiesa senza per questo esimerla dall’essere richiamata al primato della Parola di Dio sulle sue azioni. A lui s’arresero gli ideatori di Prima Linea quando consegnarono nelle sue mani il loro arsenale bellico: l’autorevolezza, quand’è tale, favorisce la resa più inimmaginabile. In lui videro l’uomo capace di dialogo, il paziente tessitore di una tela nella quale far sbocciare il dovere di una giustizia sociale che non corra però il rischio di diventare vendetta collettiva. Con la forza simbolica e immaginativa dei vecchi profeti biblici – da lui amati prima che studiati e insegnati – ha seminato nel mondo cristiano il felice sospetto che il Vangelo non sia ancora passato di moda: le sue aperture e la sua ospitale accoglienza verso le grandi questioni dell’umano non sapevano di cedimenti alle mode culturali, ma rafforzarono la forza sconvolgente di un messaggio capace di umanizzare prima di tutto l’umano, per poi condurlo sulla soglia dell’Eterno. Non stupisce questa sua grandezza d’animo se lo si ricorda figlio della Compagnia di Gesù dell’ex soldato Ignazio di Loyola: nella spiritualità del suo padre fondatore ebbe modo di scoprire il lato sensuale di un Dio capace di incunearsi nel complesso gioco di sollecitazioni presenti nella mente dell’uomo, senza per questo smarrire la sua efficacia e la sua peculiarità. Perché un Dio che umili l’umano sarebbe un Dio che davvero non meriterebbe l’adorazione delle sue creature.
Uomo di dialogo e di battaglia, capace di chiudere l’esistenza con un’intervista che ha più il sapore dell’amarezza e della resa che la forza dell’audacia: forse l’unica stranezza di un uomo del quale provare smisurata stima. Perché rimane viva in coloro che l’hanno amato un’inquietudine: “perché rilasciare solo adesso, in punto di morte, una tale geografia della Chiesa?” Leggendola s’avverte la nostalgia di Cristo, la freschezza di una Chiesa apostolica, il felice connubio tra il mondo dei desideri e le aspettative di Cristo. In punto di morte – simile ad un vecchio condottiero al quale Dio ha dato occhi lungimiranti – addita le nuove sfide che pervadono il cuore dell’uomo. Ne parla ad una Chiesa “rimasta indietro di 200 anni”, parla al Papa e ai vescovi, parla di coraggio e di paura, di ferite e di feritoie, di Passione e di Risurrezione: parla dell’uomo e della sua storia sotto il Cielo. Eppure le battaglie che a noi piacciono sono quelle che si fanno da vivi, quelle che accendi per poi sostenere coloro che alle tue parole s’infiammano, quelle che nascono nel mentre le pronunci. In punto di morte, invece, le sue parole tengono il sapore dell’impotenza e della delusione, della sofferenza di una Chiesa zoppicante e del dramma di guerre interne, del condottiero giunto sul Monte Nebo senza poter contemplare la Terra Promessa. La sua vita porta il segno di tante battaglie: ogni profeta è morto con le occhiaie pesanti e la voce rauca. Una vita di battaglie con un malinconico sospetto: che pure a lui sia stata impossibile una vera riforma non tanto della Chiesa (sogno proibito di ogni Papa) ma della percezione che la Chiesa ha di se stessa. Impossibile a lui, figuriamoci al popolo credente. Nonostante ciò – o forse proprio per quest’ultima confidenza umana – grazie eminenza; per averci tradotto la Parola nella lingua di ciascuno.

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