Sgualcinato e irriverente, eppur capace di quell’estro affettuoso che appartiene al più nobile degli animi. Quelle volte che gliel’hanno toccata o citata nei cori che l’accompagnano dentro lo stadio, Mario Balotelli l’ha difesa a spada tratta, con quella furia incontrollata e quella dignità appassionata che lega un figlio con una madre. L’altra sera, dopo aver portato l’Italia sul ciglio della gloria, è andato vicino alla tribuna e se l’è stretta al collo. Perchè dietro la sua storia dall’aspetto complicato e dalla calligrafia difficile, ci sta la scommessa di una donna e di un uomo che anni fa raccolsero la sfida di offrire un futuro a quel ragazzo nato con una malformazione che troppi ancor oggi non perdonano nell’Italia culla della civiltà: la pelle nera. Pur sapendo che dentro l’albero genealogico ognuno di noi porta qualche traccia di emigrazione. Eppure la colonna sonora che l’accompagna racconta di slogan da vomito che illustrano il rigurgito più becero di un Paese che in qualche sua frangia è ancora incapace di fare pace con se stesso e con le mutazioni culturali.
Nel 2006 esordì come professionista nel terreno del Padova, in C1. Nessuno conosceva l’estro e le potenzialità di questo figlio nato italiano ma riconosciuto tale solo dopo 18 anni. Eppure quella domenica pomeriggio si levarono per lui i fischi di un pubblico inviperito da quell’accecante colore che di lì a poco c’avrebbe condotti ad un passo dalla gloria. Di lui si tratteggia volentieri il lato oscuro del comportamento: bizze e bizzarrie di chi nasce campione e sa di esserlo. E’ proprio del genio l’irrequietudine e la sregolatezza, il pensarsi al di sopra delle righe e la malinconia di fare quello che fanno tutti. Perchè nascere campione è un po’ come sentirsi esenti dalla gavetta, da quel lento apprendere l’umile arte di far esplodere appieno i propri talenti e arrivare sulla cima del mondo avvertendosi simili agli dei della mitologia greca: ci sono attimi in cui la gloria acceca anche il più umile degli eroi. Per poi, talvolta, ricordarsi da dove s’arriva, perchè le sorgenti mantengono sempre la parola. Ecco allora l’abbraccio con mamma Silvia, un’anziana signora bresciana che da decenni s’è innamorata dell’altra faccia di Mario, quella stemperata e screanzata che, come un’artigiana nel suo laboratorio, non s’è mai stancata di modellare nel nascondimento. Commuove che un ragazzo adorato e conteso, paparazzato con splendide donne e foriero di leggende metropolitane sia andato a cercare lei, donna anonima dentro la boglia di uno stadio vestito a festa. Ma dentro quell’abbraccio sincero e inedito c’è tutta l’anima di un ragazzo capace di dare merito a chi ha addomesticato il suo cuore di fuoriclasse.
Donna Silvia la citano nei cori gli imbecilli: la loro madre è data sempre in procinto di gravidanza. Cesare Prandelli gli esperti l’hanno crocifisso per quel suo ridare fiducia ad oltranza ad un ribelle naturale. Entrambi hanno abbassato la testa e hanno continuato a crederci, come degli artisti visionari che lentamente intuivano il germogliare di un campione. L’altra sera c’ha pensato lui a riaccreditare sul conto di questi due mister il guadagno più bello: son bastati pochi secondi per accertare loro che il tempo investito non è andato perduto. S’attendeva solamente il palcoscenico più bello e autorevole per gridare al mondo che lo sport è ancora colorato di gesti nobili e teneri. Come l’abbraccio silenzioso ad una madre o l’occhiolino festante tributato ad un mister capace di parlare ai fuoriclasse genetici. Con una lezione in calce: ovunque, anche nella Chiesa, è più comoda la sicurezza dei gregari ordinari che il rischio dei fuoriclasse genetici. Chi accredita questi ultimi sarà passibile di critiche feroci. Fino al giorno in cui si sveglieranno e racconteranno la validità di una scommessa giocata quando nessuno ci credeva. E’ di loro la vittoria più bella.