Gli allenatori: come scultori visionari. S’innamorano di quei blocchi di marmo – impolverati, sfregiati o luccicanti poco importa – accovacciati nel fondo di una palestra e li fanno diventare la loro ragione di vita. Si siedono accanto per anni, ne individuano l’anima e tentano di sprigionarne la forma, come Michelangelo mentre liberava dal marmo il suo Mosè. I più sono protagonisti di sport emarginati e s’accollano l’arduo e intrigante compito di svegliare dei brutti anatroccoli accendendo in loro la bellezza del cigno. Lavorano indomiti sui bordi del carattere, ne smussano i difetti per far brillare i pregi; li vedono uscire goffi dal marmo, ne perfezionano i movimenti sgraziati, pennellano la ricercatezza dei particolari perchè da essi dipenderà l’armonica bellezza di un gesto atletico e il destino ultimo dei loro capolavori. Un giorno qualcuno di quegli atleti scriverà la storia dello sport: nessuno, forse, saprà mai i nomi degli allenatori-scultori che li hanno addomesticati. Sarà questo nascondimento convincente a chiamarli in causa solo in caso di restauro o di sconfitta, per proteggere i loro capolavori dalle intemperie delle critiche. Poi ritorneranno a sudare e masticare la polvere di anonime palestre di periferia. O di solitarie strade assolate.
Le olimpiadi sono anche il loro traguardo, il punto d’arrivo di un sogno condiviso in una lunga gestazione con il loro atleta. Perchè nessuno saprà mai che dietro le imprese di Alex Schwazer e Giulia Quintavalle, di Valentina Vezzali e di Nicola Vizzoni, di Chiara Rosa e di Giovanni Pelliello ci sta nascosta la maestria di un allenatore che è riuscito a parlare al loro cuore di atleta. Poco importa che i loro nomi non facciano parte dello showbiz di sport a tinte forti: ciò che per loro conta è insegnare loro come vincente non è chi vince sempre ma chi trova sempre la voglia di vincere e di divertirsi, soffrendo un attimo in più dell’avversario. Chi dei giovani ne approfitta usa oggi un vocabolario dal campo semantico ristretto e monocolore: compagnia, vasca, muretto, forza, violenza, appartenenza, minaccia, ricatto, spionaggio. Parole che raccontano l’oscurità, il grigiore, la stanchezza, la paura di perdere il controllo della situazione. Il vocabolario di chi dei giovani fa il loro investimento umano più bello s’aggrappa a parole giovani e colorate: passione, sacrificio, caparbietà, sudore, gloria, conquista, addestramento, travaglio, inseguimento, emozione, lacrime, sorrisi, abbracci. Parole che raccontano di un dinamismo interiore, di un’attrazione appassionata, di un bersaglio individuato. Capacità di sopportare lunghi allenamenti, ripetuti passaggi, faticosi sacrifici. Cassius Clay, l’ex pugile americano oro olimpico a Roma 1960, annotò nel suo diario: «Ho odiato ogni minuto d’allenamento ma mi dicevo: non rinunciare. Soffri ora e vivi il resto della vita da campione». D’altronde è il saperci fare in quella zona di confine, dove l’ordine e il disordine fanno a pugni, che permette a qualsiasi allenatore di misurare la forza del suo carisma. Si può allenare anche senza schemi in testa: ciò che conta è il mordente che uno ci mette attorno alle parole.
Il giorno dell’Olimpiade l’allenatore se ne starà accovacciato a bordo pista e accetterà di far dipendere il suo destino dal gesto atletico del suo campione. Convinto che lo sport, dopotutto, è stata per lui l’occasione di insegnare a diventare uomini e donne più forti. E l’Olimpiade è stata il palcoscenico luminoso per mettere in scena l’avventura più intrigante: quella di educare un giovane al sacrificio per assaporare la gloria.
Come i vecchi educatori della Scrittura Sacra.
(Avvenire, 3 agosto 2012)