La terra della Laguna e delle Alpi, del Santo senza nome e del caffè senza porte, dell’Arena e della Fenice, del prosecco, della polenta e di gloriose società sportive. La terra delle sette medaglie conquistate nella Cina olimpica. Una terra che da qualche giorno sogna i cinque cerchi dell’Olimpiade 2020: per regalarsi la soddisfazione di mostrare al mondo l’intraprendenza, la fantasia e la caparbietà di un popolo ricco di cultura, di sport e di tradizioni. Perchè l’olimpiade è l’olimpiade: fenomeno planetario, economico, di gloria e di onore. Ma, sopratutto, è un biglietto da visita unico per presentarsi al mondo. La concorrenza è agguerrita, i rivali cresceranno, la sfida s’affilerà: ma tutto questo non potrà che portare al massimo le potenzialità e la creatività di chi intende ospitarle. Ma il lato organizzativo di un’olimpiade è una faccia della medaglia olimpica: quella che spetta agli organizzatori, alla politica, alle imprese e ai grandi sponsor. L’altra è la faccia che mostra il dietro le quinte di una medaglia: la fatica dell’allenamento, la pianificazione, l’avvicinamento al mese olimpico. I programmi, le tabelle dall’allenamento, la concentrazione. E’ la faccia degli atleti e degli allenatori ai quali appartiene l’ardua sfida di far emergere dal blocco di marmo quello splendido campione che Madre Natura ha nascosto. E un campione non s’improvvisa: lo si cerca, lo si fiuta, lo si percepisce da quei passi e movenze che ancora infante sa comporre. L’olimpiade del 2020 sarà un palcoscenico bellissimo per quella generazione nata tra il ’90 e il 2000: ragazzi che adesso abitano i banchi dei licei e degli istituti tecnici, che frequentano le piazze e gli oratori della città, che sognano un giorno di diventare qualcuno nella vita. O, per lo meno, di non condurre un’esistenza insignificante. Qualcuno è tesserato nelle società sportive, altri fanno dello sport un passatempo felice, altri sono soci di quel club che va dalla piazza al muretto. Altri ancora fanno parte di quel popolo giovane che sostiene la squadra di quartiere o di provincia.
Preparare un’olimpiade è anche una sfida umana, perchè da sempre il fisico e il cuore sono due aspetti inscindibili tra di loro: “non sono felice perchè ho vinto, ma ho vinto perchè sono felice” – disse Alex Schwazer dopo l’oro nella 50 km di Pechino -. Che è molto più d’un semplice gioco di parole: è l’attestazione che il risultato – sopratutto se la competizione chiede uno sforzo mentale al limite – sboccia quando il cuore è tenuto in ordine. “Mettere in ordine” è un verbo familiare alle orecchie giovani. Perché richiama l’invito insistente della mamma a sistemare la camera, lo zaino o la cucina. Mettere in ordine l’interiorità: sentimenti, emozioni, desideri sono cassetti che compongono la struttura della nostra personalità. E, di conseguenza, del nostro agire. Tenerli ordinati è il segreto per non sperperare il talento ricevuto. Qualsiasi educatore può misurare in quella zona in cui ordine e disordine fanno a pugni la sua capacità di manovra nell’animo del ragazzo giovane. Sapendo che nel momento decisivo l’allenatore non potrà combattere: rimarrà a soffrire ai bordi della pista.
Da oggi al 2020 la sfida coinvolgerà la politica e l’economia, l’immagine e le competenze. Ma chiamerà sopratutto all’opera allenatori ed educatori che, all’olimpiade, offrono ciò che nessun altro può: un atleta vincente. Per allenare il quale s’impiega più che per costruire un villaggio olimpico. Perderemo la sfida dell’ospitalità? Rimane la bellezza d’averci provato avendo allenato un’intera generazione al “citius, altius, fortius”, ovvero “più veloce, più alto, più forte”: il motto dell’olimpiade.