amnistia

L’eco di queste due parole – amnistia e indulto – è assai indigesto dentro il vociare confuso di una città. Ogni qual volta tornano alla ribalta della riflessione, per compassione o per costrizione, gli animi si accendono e le diatribe esplodono, fin quasi a svuotare di significato ogni pur nobile tentativo di rendere meno umiliante la vita di una nazione. Eppure riflettere sulle modalità di esecuzione della pena – che in ultima è la riflessione sulla situazione delle carceri – è un compito che spetta all’intera cittadinanza, non solo alle istituzioni. Se è vero che è compito della politica e di coloro ai quali è affidata la tutela della giustizia esprimersi sull’opportunità o meno di concedere sconti o benefici a chi ha tradito la fiducia della società, dall’altra è anche vero che spetta alla società intera fare di tutto perchè un gesto di clemenza istituzionale non trasformi un senso di insicurezza sociale – di per sé condivisibile – in una trappola che ostacola la salvaguardia della dignità di ogni persona.
La presenza di un carcere è in sé l’emblema di un fallimento: quello di una società che per via legislativa non è riuscita a mantenersi in ordine. Un carcere ridotto nelle condizioni attuali è una doppia sconfitta: oltre alla prima, anche il fatto di avvallare quasi una sospensione della dignità della persona reclusa: il che non trova giustificazione alcuna. Che la dimensione politica s’interroghi sulla realtà carceraria, oltrechè un dovere è anche un obbligo: la civiltà di una nazione – come sottolineato da più parti – si misura dal trattamento che essa riserva ai suoi detenuti. Le gesta imbarazzanti di papa Francesco, le parole austere del Presidente della Repubblica, il pressing dell’Europa e l’allarme di tante associazioni sta facendo diventare necessità ciò che altrove è una virtù: salvare la legge senza umiliare l’uomo. Al netto dell’intuizione di Agostino: il peccato va’ estirpato perchè è opera dell’uomo, l’uomo va’ salvato perchè opera di Dio. Ecco, dunque, che assieme alla politica e alla magistratura è preziosa, laddove risulta possibile, l’opera rieducativa dietro le sbarre: attraverso il lavoro e la riflessione, creare le condizioni favorevoli perchè l’uomo possa risalire alle sorgenti della propria storia, guardare in faccia il male compiuto e prenderne le distanze: senza mai giustificarlo ma tentando in tutti i modi di comprenderlo.
Rimane però l’altra faccia dell’amnistia e dell’indulto: dare fiducia all’uomo che esce dalla galera. Le loro esistenze sono come delle cisterne screpolate, delle vite deragliate: arrecheranno paura se non si troverà il coraggio di avvicinarle, di “metterci la faccia” per qualcuno di loro, di aprire una porta al vecchio lupo di galera. Non basta addomesticare il lupo, occorre convincere la gente che il lupo non farà più paura, come successe nella cittadina di Gubbio. Perchè un detenuto che grazie a qualche clemenza esce improvvisamente dal carcere non è automaticamente un uomo felice, e nemmeno libero: è gente che quasi non appartiene più nemmeno a se stessa. Per renderlo tale, però, basterebbe poco più di niente: una porta che si apre, una mano che ti stringe, un volto che ti ospita. Una voce che nel frastuono confuso di un’improvvisa libertà pronunci il tuo nome: quelle sillabe scandite ti ricorderebbero che qualcuno ti attende. Nonostante tutto. Saranno presenze che diventeranno imbarazzanti: perchè aiuteranno a non dimenticare il male compiuto ma a riscattarlo con un futuro diverso. Più umano e più umanizzante.

(da Avvenire, 12 ottobre 2013)

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