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Il brano dal libro dei Proverbi segna una sorta di trait-d’union tra la Bibbia ed il sapere laico della Grecia classica, riuscendo, al contempo a congiungersi con la novità del Natale cristiano.
La Sapienza, infatti, può essere considerata come il Verbo giovanneo, che troviamo poi nel Vangelo. Dio, creatore del cielo e della terra, crea ogni cosa con Sapienza: ecco perché essa lo accompagna sin dal principio.
Eppure l’immagine che ne viene è ben lungi dall’immagine abituale che ne possiamo avere: associando la sapienza alla saggezza, ci viene da pensare ad un anziano. Nel brano, invece, è sottolineato che “giocava davanti a lui in ogni istante, giocava sul globo terrestre ” (Pr 8,30). L’immagine fa pensare a quei bambini, non più bebé, ormai in grado di sostenersi e stare seduti che il genitore, abitualmente, pone accanto a sé, su un tappeto, con qualche gioco, mentre egli lavora. Sentendo il papà o la mamma vicino, non ha paura e si lancia – eventualmente – in ardite esplorazioni; di tanto in tanto, alza lo sguardo, magari senza neppure emettere suoni, giusto per assicurarsi che il genitore sia sempre presente. E, intercettatone lo sguardo, riprende a fare la cosa più importante di tutte, per un bambino: giocare.
Tale è l’immagine suggerita dai Proverbi, quando si parla della Sapienza, che, contrastando, con le nostre abitudini, diventa così un invito a ricordarci che “la maturità dell’uomo significa aver ritrovato la serietà che da fanciulli si metteva nei giuochi”(Nietzsche). Alle volte, infatti, ci capita di scambiare la serietà con la seriosità e siamo convinti che avere una faccia poca allegra suggerisca al prossimo la nostra importanza e ci faccia rispettare. Non prenderci troppo sul serio è – piuttosto – il vero antidoto alla tristezza: imparare a ridere di noi stessi, come Dio che lascia giocare la Sapienza sul globo terrestre!

Il Prologo di san Giovanni, del quale, per altro, abbiamo da poo celebrato la memoria liturgica, si caratterizza in modo particolare per la grande potenza iconografica, oltre che per l’alta teologia, racchiusa nelle sue pagine.

«In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4)

Di fronte all’oscurità, abbiamo sempre due alternative, a nostra disposizione. Possiamo maledire l’oscurità, ottenendo l’unico cambiamento di innervosirci; oppure, possiamo accendere qualcosa (una candela, una torcia, oppure anche solo un fiammifero): non spazzeremo via del tutto l’oscurità, ma basterà a non farci vincere dall’oscurità.

Questo contrasto tra buio e luce si rivela terribilmente attuale, nel contesto odierno. Bombardati dalle notizie di calamità che si susseguono (dall’Indonesia alla Sicilia, passando a chi, per ignoranza o stupidità, confonde una partita di pallone con una guerra civile), siamo forse tentati verso la rassegnazione, verso un pensiero che, facendosi strada, rischia di bloccarci: “non vale la pena”. Perché affannarsi? Perché fare il bene, se tanto non è apprezzato e finisce, anzi con il sembrare del tutto inutile e non rilevante?
Cristo, morendo sulla Croce per noi, ci ricorda che vale sempre la pena. Anche quando non sembra affatto. L’uomo, nonostante tutte le sue ribellioni, rimane così prezioso agli occhi di Dio, da scegliere di farsi bambino, di prendere carne e sangue, per placare la nostalgia provocata da quella frattura, che sembrava insanabile, tra l’uomo e Dio.

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14)

Rischiamo spesso di perdere quale sia la forza di queste parole, perché abbiamo perso la memoria storica culturale. Pensare che Dio l’intangibile, l’insondabile, l’inconoscibile, il totalmente-Altro, possa essere un bimbo da prendere in braccio è un vero e proprioscandalo, non solo per la cultura ebraica, ma anche per quella greca. Il corpo, da prigione platonica dell’anima (e, dunque, orpello di cui disfarsi il prima possibile, per raggiungere la vera libertà), diventa strumento per ricongiungere, come una cerniera, la terra e il cielo, l’uomo e Dio.
Gesù, la Seconda Persona della Santissima Trinità è il Dio che ha liberamente scelto di farsi (veramente) uomo, affinché l’uomo potesse diventare Dio.
Qual è il senso del Natale? San Paolo, forse ci aiuta a comprenderlo meglio, anche nella sua relazione con la Croce:

«È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20)

In Gesù, Crocifisso e Risorto, ogni cosa trova il proprio posto ed il proprio senso. L’uomo può tornare a guardare il cielo, in cerca dello sguardo di quel Padre da cui sa che può sperare il perdono che libera. La morte, finalmente sconfitta, non è più d’inralcio al ritorno verso l’Origine: Gesù è come una zip che, discesa in terra, ci ha aperto la strada per il Cielo!

Rif: letture festive ambrosiane nella Domenica nell’Ottava del Natale del Signore, Anno C (Pr 8,22-31; Sal 21; Col 1,15-20; Gv 1,1-14)


Fonte immagine: Crateandbarrell

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