Lo aveva già cantato quel grande genio di Steve Jobs, quasi un testamento spirituale affidato alle generazioni giovani capaci ancora di sognare un futuro da protagoniste: “ricordarsi che si muore presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per prendere le grandi scelte della vita. Siete già nudi. Non c’è ragione per non seguire il vostro cuore”. La morte poco s’addice all’eta giovane: per scaramanzia, perchè la morte solitamente s’abbina alla vecchiaia, perchè s’è deciso che la paura della morte vada vinta dimenticandosene. Eppure è bastata la morte di un ragazzo giovane come Marco Simoncelli a riportare nell’immaginario dei giovani la possibilità della morte, di quest’austera e nobilissima donna – solitamente dipinta con i lineamenti della vecchia strega vestita di nero – la cui presenza ci ricorda che non siamo immortali. Dicono che fossero sessantamila, ma potrebbero essere stati anche migliaia di meno al funerale del campione romagnolo: ciò che conta è che almeno per un’ora il popolo giovane – raccolto nella chiesa di Coriano o sdraiato nella pista di Misano – s’è ricordato dell’eventualità della morte e abbia avuto modo di guardarla in faccia per scoprire la bellezza di quello che troppi ormai hanno dato per scontato: la vita stessa. Nell’antichità chi guardava Medusa rimaneva pietrificato: oggi la lotta contro il senso della morte può costruire splendidi guerrieri e indomiti combattenti capaci di rispondere all’eterna domanda che c’interpella nell’anima: chi sta firmando la mia vita?
La morte di Marco – e quella anonima di migliaia di altri ragazzi – c’ha mostrato una faccia del mondo giovanile che avevamo dimenticato: quella che piange e s’interroga, che s’allea per vincere il dolore e cerca come accattone un senso al dolore. La faccia umile e sensibile, addolorata e commossa, striata dal pianto e strozzata dai singhiozzi. Perchè Marco aveva 24 anni: l’età dei sogni e dei colori, della spensieratezza e dell’immortalità, della spavalderia e dei progetti. Era uno di loro: parlava il loro linguaggio, amava i loro segni, faceva viaggiare a 300 km/h la fantasia e l’irriverenza dei vent’anni. Guardava in faccia la vita e gridava “Diobò che bello” come intitolò la sua autobiografia. Ecco perchè la morte di un giovane per una settimana balza al primo posto: perchè quel corpo stramazzato a terra invita i suoi coetanei a chiedersi cosa ne stanno facendo della loro vita, dei loro sogni, dei frammenti che compongono le loro giornate. Sapersi provvisori sembra essere l’aiuto più bello per firmare da protagonisti la propria vita: “meglio cinque minuti a trecento all’ora – disse un giorno – che una vita sprecata”. Eggià: anche nel Vangelo chi non ha il coraggio di rischiare alla fine abbassa la testa, gira i tacchi e se ne va via triste. Perché capisce che gli è stata offerta un’occasione che non si ripeterà più. Nella vita nulla si ripete: le ore, i giorni, gli anni e ciò che essi offrono non sono né fotocopiabili, né riciclabili. Sono unici e irripetibili. Sempre! O li firmi, o li vivi da protagonista, o li perdi. Triste se ne va’ il giovane raccontato nel Vangelo, perché intuisce che rimarrà un tale: uno dei tanti, uno del gregge, uno che segue la corrente.
Nella Scrittura Sacra per poter essere chiamati per nome occorre riaccendere la forza dei sogni. I sogni di quei ragazzi che, attoniti e muti, irriverenti e spavaldi in questi giorni a modo loro stanno chiedendosi il perchè di quella morte. E, magari senza accorgersene, si stanno interrogando pure sulla loro vita. Perchè nessun giovane è così disattento da non comprendere che certe morti toccano più da vicino di altre, perchè chi muore lo sentivi quasi parte di te, proiezione di quella persona bellissima che un giorno hai iniziato a sognare di diventare. Sono le lacrime e i silenzi muti di questi giovani oggi a tenere in piedi la speranza di questo Paese e ci rendono orgogliosi di quell’Italia giovane ancora capace di piangere oggi per sorridere domani.
La Commemorazione di tutti i defunti – che celebriamo ogni 2 novembre – è l’occasione per guardare in faccia la morte e non prendere paura o agire da vigliacchi in fronte a lei:“gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci” (B. Pascal). Per chi poi ha il dono della fede, questo giorno è l’occasione per ringraziare il Cielo d’averci insegnato a scorgere dietro la Croce del Golgota la Tomba Vuota del mattino di Pasqua. Scrisse Platone: “Tre sono le possibilità. O apprendere da altri come stanno le cose; o scoprirlo da sé; o accogliere la migliore delle idee umane e su questa lasciarsi trasportare come su una zattera, arrischiando l’attraversata della vita. Salvo che qualcuno possa fare il tragitto, con maggior sicurezza e minor pericolo, su più solida barca, cioè con qualche divina rivelazione”. Requiescant in pace!